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Teatro alla Scala - Ufficio Ricerca Fondi Musicali - Conservatorio G. Verdi di Milano
I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 13, I ordine, settore sinistro

Tra i palchettisti del Ducale e i costruttori del Carcano
Il palco al momento dell’inaugurazione del Teatro è di proprietà di donna Rosa Pecis (morta nel 1782) la cui famiglia di nobiltà minore ebbe origine nelle valli bergamasche. Già palchettista del vecchio Teatro Ducale, ha il diritto di prelazione per l’assegnazione di un palco nel costruendo nuovo teatro. Ebbe due figli maschi, Antonio e il conte Giuseppe (1722-1799), personalità di spicco dell’amministrazione asburgica, autore del poema epico celebrativo intitolato L’Austriade (1764), un omaggio all’imperatrice Maria Teresa e all’arciduca Giuseppe col quale si guadagnò la riconoscenza della corte viennese. Maria Teresa lo nominò Sovrintendente Generale delle acque, delle strade e dei confini della Lombardia austriaca.
Alla morte di donna Rosa nel 1783 il palco salta una generazione e passa alle tre nipoti, figlie di Antonio: Carolina coniugata Bellinzaghi, Giulia coniugata con il “fermiere” Pietro Venini e Teresa con Antonio Tanzi, creato conte da Giuseppe II nel 1787. Quest’ultima porta il palco in dote al marito, già proprietario sin dall’apertura del Teatro di un altro palco (n° 1, III ordine destro). Ma il nome di Tanzi compare solo per pochi anni. Dal 1793 infatti sono ancora le sorelle Giulia e Carolina a risultare le sole proprietarie del palco.
Morta prematuramente Giulia nel 1820 ed estinta la sua discendenza, Carolina e la sua famiglia rimangono a lungo gli unici proprietari; a Carolina nel 1845 subentra infatti il figlio Carlo Bellinzaghi, ingegnere e membro del Consiglio Comunale di Milano dal 1844.
Il successivo proprietario dal 1859 al 1862 fu il nobile Pompeo Calvi (1806-1884), apprezzato pittore paesaggista, allievo all’Accademia di Brera di Giovanni Migliara, che ricevette molte commissioni dalle famiglie aristocratiche milanesi.
Dal 1863 il palco viene acquisito Alfredo Carcano che ne risulta proprietario sino al 1904. Cavaliere dell’Ordine di Malta, Alfredo è il nipote del banchiere Giuseppe Carcano, noto per aver fatto costruire nel 1803, su progetto del famoso architetto Luigi Canonica, l’omonimo teatro in Corso di Porta Romana, palcoscenico rivale della Scala nella prima metà dell’Ottocento.
Infine, ultimo proprietario dal 1905 al 1920 fu Alfredo Ferrari Ardicini con le sorelle Emma e Ida, appartenenti a una famiglia nobile originaria di Gozzano (Novara), che lo ereditarono tramite la madre Maria Costanza Carcano, sorella di Alfredo e sposata con Giovanni Ferrari Ardicini. Nel 1920, con la nascita del´Ente Autonomo Teatro alla Scala e la cessione dei palchi al Comune, si conclude la storia dei palchi privati del massimo teatro milanese.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 18, II ordine, settore sinistro

Il palco dei Poldi Pezzoli
Il primo proprietario del palco è Luca Pertusati (1699-1779), conte di Castelferro e di Comazzo, patrizio milanese, sposato con Francesca Maria Pallavicino Trivulzio e proprietario anche del palco n° 15, III ordine sinistro; palchi analoghi - stesso numero e stessa fila - a quelli che possedeva nel Teatro Ducale distrutto da un incendio nel 1776. Alla morte del conte i palchi vengono divisi tra i figli: il palco n° 18 va a Carlo (1743-1804), l’altro al fratello minore Gaetano (1750-1829).
Carlo, coniugato con Maria Paola Elisabetta Aliprandi Carena, non ebbe figli e nel 1802 vendette il palco al Sig. Giuseppe Zuccoli, come risulta dall’atto redatto dal notaio Federico Pozzi l’8 aprile di quell’anno.
Passato a miglior vita nel 1806 Giuseppe Zuccoli, il palco rimase per diversi anni ai numerosi eredi: la moglie Marianna Erba, i figli Giacomo, Bartolomeo, Ignazio, Luigi, Francesca maritata Torregiani e “il di lui abbiatico sig. Pietro De Luigi figlio della predefunta Maddalena Zuccoli già moglie del sig. Francesco De Luigi”. Il 6 settembre 1819, davanti a Giuseppe Arpeggiani notaio residente in Milano, gli eredi del fu Giuseppe Zuccoli vendono “il palco con suo camerino in seconda fila numero diciotto alla sinistra entrando, nell’I. R. Teatro detto della Scala” a Giuseppe Poldi Pezzoli <1.> (1768-1833), per il prezzo di Lire milanesi quarantottomila, corrispondenti a Lire italiane trentaseimilaottocento e quarantotto centesimi. Il suddetto palco confina da una parte con il “Palchettone” (come era chiamato il palco reale) dell’I. R. Governo di Milano e dall’altro con quello degli eredi di casa Archinto. L’elenco degli arredi compresi nella vendita del palco e del relativo camerino ci riporta nel teatro di allora: “Due canapé imbottiti con coperta di Florence color celeste, tappezzeria simile con cornici dorate e tendine di seta color orange, due scranne [sedie con braccioli] rivestite di Florence simile ai canapé, due trumeau con i suoi braccialetti e tondini di cristallo; due tendine con fiocchi e cordoni alla porta simili alla tappezzeria, antiporto e gelosia”. E nel camerino: “Quattro guarnerj immurati [armadi a muro], due serrature, un tavolino attaccato al muro con rampino di ferro, ed un altro tavolino disnodato, un contro antiporto foderato da una parte di Bajetto e dall’altro di seta simile alla tappezzeria”. Il pagamento viene effettuato contestualmente all’atto dall’acquirente “in buoni denari sonanti, correnti d’oro e d’argento, ai Signori venditori che li ricevono, numerano e tirano a sé, e li quali ne confessano la ricevuta e ne fanno la relativa ampia quietanza a favore dello stesso signor compratore”.
L’acquirente Giuseppe Poldi Pezzoli era nato a Parma da Gaetano Poldi e Margherita Pezzoli e proprio nel 1819 aveva sposato Rosa Trivulzio (1800-1860), figlia del principe Gian Giacomo, bibliofilo e dantista, appartenente ad una delle famiglie aristocratiche più antiche e ricche di Milano. Nello stesso anno il conte Giuseppe Pezzoli d’Albertone, con testamento, aveva nominato suoi eredi i nipoti Giuseppe Poldi e Ignazio Goltara, figli delle sue sorelle Margherita e Annunziata, con l’obbligo di aggiungere al proprio il cognome Pezzoli. Oltre al titolo nobiliare e al cognome, Giuseppe Poldi Pezzoli eredita un cospicuo patrimonio, compreso lo splendido palazzo dove oggi ha sede il museo e una raccolta di dipinti di pittori italiani del ‘500-‘600.
Scomparso nel 1833, Giuseppe lascia due figli in tenera età, Gian Giacomo (1822-1879) appena undicenne e Matilde, anch’essa minorenne, che muore a vent’anni nel 1840. Il palco rimane alla famiglia sino al 1882, intestato a diversi parenti del ramo paterno; Gian Giacomo risulterà intestatario solo dal 1876. Cresciuto in un ambiente ricco di stimoli culturali, sotto la guida della madre, mecenate appassionata e cultrice di musica, a contatto con molti artisti spesso ospiti a Bellagio nella villa di famiglia, Gian Giacomo divenne un appassionato ed esperto collezionista di dipinti e altri oggetti d’arte, avendo ereditato dalla madre una cospicua e pregevole raccolta, alla quale si era aggiunta quella del prozio Giuseppe. Fu attivo sul fronte politico: la sua adesione alla causa risorgimentale si tradusse nella partecipazione alle Cinque Giornate di Milano e alla prima guerra d’indipendenza. Tornati gli austriaci, dovette fuggire in Svizzera e ottenne di poter rientrare a Milano nel 1850 pagando una “multa” di 600.000 lire. Da allora il suo principale impegno fu quello di ampliare la sua collezione con l’idea di farne un museo dedicato all’antica arte italiana, adattando a tal fine il suo palazzo di via Manzoni.
Morto improvvisamente nel 1879, Gian Giacomo lasciò come erede universale del suo ingente patrimonio, compreso il palco alla Scala, il cugino da parte materna marchese Luigi Alberico Trivulzio (1868-1938) che lo mantenne sino alla costituzione dell’Ente Autonomo Teatro alla Scala nel 1920, che segna la fine della proprietà privata dei palchi. Il museo Poldi-Pezzoli, nato per volontà testamentaria come Fondazione Artistica Poldi Pezzoli, aprì al pubblico il 26 aprile del 1881.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco di proscenio, III ordine, settore sinistro

Negozianti, possidenti-agricoltori, scienziati e benefattrici
Il Capitano Daniele Rougier (oppure Ruggeri o Ruggieri) era proprietario dello stesso numero di palco e ordine al Teatro Ducale ed esercitò il suo diritto di prelazione per l’acquisto del palco al Teatro della Scala: ne detenne il possesso dal 1778 al 1796. Figlio di Giovanni Andrea, il capitano sposò Francesca Spagnoli, che morì vedova nel 1829 lasciando i figli Carolina e Giovanni ancora minorenni. Daniele Rougier era negoziante in Porta Romana, nella parrocchia di S. Nazaro, con un consistente volume d’affari, tale da risultare garante per 13.000 lire di un prestito di 50.000 lire fatto dal ricco notaio Giuseppe Macchi al Conte Francesco Molina nel 1793.
Dal 1809 al 1887 il palco appartenne ad una sola ma importante famiglia milanese, quella dei Berra. Il primo palchettista fu Domenico (1771-1835), avvocato e possidente, “nel quale - come recita l’epigrafe funeraria - all’acutezza dell’ingegno fu pari l’eccellenza del cuore”. Scrisse libri e saggi sull’agricoltura, sperimentando sui propri terreni le sue teorie. Nel 1822 pubblicò Dei prati del Basso Milanese detti a marcita e, come egli stesso sottolinea nella introduzione, fu invogliato a scrivere di agricoltura da Filippo Re, agronomo emiliano, con il quale ebbe molti scambi epistolari sul tema concludendo che nulla potesse essere più curioso e interessante dei “portentosi prati a marcita” che davano la possibilità di avere erba fresca anche in inverno grazie al particolare sistema di irrigazione. La sua opera di divulgazione si indirizzò, oltre a vari settori dell’attività agricola, anche all’allevamento del bestiame. I suoi scritti miravano a stimolare i possidenti lombardi in un momento di mutamenti che oggi definiremmo tecnologici, sulla via di un progresso volto a migliorare i risultati economici e insieme le condizioni di vita dei lavoratori. Il Berra a 32 anni aveva sposato Carolina Frapolli, patriota, Ebbero tre figli, Francesco, Teresa e Antonia.
Francesco Berra (1815-1874) fu proprietario del palco dal 1836 e lo condivise con la sorella TeresaTeresa Berra (1804-1879) nella stagione 1837-1838. Coniugata con Carlo Kramer nel 1821, Teresa fu di profonde convinzioni repubblicane, sostenitrice della Giovine Italia e amica personale di Giuseppe Mazzini. Alunna del prestigioso Collegio delle fanciulle, suonava molto bene il pianoforte tanto da esser dedicataria di brani di notevole difficoltà. Aderì presto - come la madre Carolina, Cristina Trivulzio di Belgiojoso e la pittrice Ernesta Legnani - al movimento delle Giardiniere, il ramo femminile della Carboneria. Impegnata attivamente nella propaganda politica, destò l’attenzione della polizia asburgica. Nel 1848, dopo le Cinque Giornate di Milano, per sfuggire alle ritorsioni si rifugiò nella sua villa di Lugano dove dette asilo a molti esuli italiani.
Francesco Berra era un ricco e competente gelsibachicoltore, membro di società scientifiche del regno Lombardo-Veneto. Sposò Luigia Morosini, sorella della più famosa Giuseppina “antica e fedele amica” di Giuseppe Verdi e del pittore Francesco Hayez. Francesco e Luigia ebbero due figlie, Emilia e Carolina.
Emilia (1848-1926) sposò Adolfo Nathan, ingegnere ai cantieri navali Ansaldo di Genova e fu proprietaria del palco fino al 1887; Carolina, moglie di Carlo Venino, figura comproprietaria del palco per poco tempo, perché morì nel 1881. La nobildonna, patriota e benefattrice come tutte le donne della sua famiglia, contribuì alla sottoscrizione nazionale per la Spedizione dei Mille verso la Sicilia; fu anche uno degli amori taciti e mai condivisi del poeta e scrittore Carlo Dossi, come si legge nel suo lungo e autobiografico Note Azzurre. Per contro, la chiacchierata avventura con il garibaldino Giuseppe Guerzoni provocò la separazione di Carolina dal marito. Guerzoni venne nominato usufruttuario dei beni dalla Berra, che alla sua morte ricevette un sentito ricordo pubblicato nella Rivista della beneficenza pubblica e delle istituzioni di previdenza.
Nella stagione 1887-1888 il palco è intestato all’industriale lombardo Giuseppe Frova (1831-1887) che non farà in tempo a godersi gli spettacoli perché morirà cinquantaseienne il 28 dicembre, appena due giorni dopo l´apertura della Stagione. Il suo cospicuo patrimonio, palco compreso, passò alla moglie Carlotta Frova Francetti (1839-1908), che molto si dedicò alla beneficenza in vita; il suo testamento olografo del 20 giugno non fu da meno per generosità: numerosi lasciti al Pio Istituto Oftalmico, all’Ospedale Maggiore di Milano, all’Orfanotrofio Maschile e Femminile, all’Asilo infantile di Milano ed Esterni, all’Istituto Scuola e Famiglia e al Pio Istituto per Rachitici e legati a parenti, amici, dipendenti oltre ad altri minori come rilevato dal settimanale per la famiglia Il Buon Cuore del 1909.
Per non smentirsi, la signora Frova lasciò il suo palco scaligero, dal 1908, al Pio Istituto Oftalmico che ne conservò la proprietà fino al 1920 quando fu istituito l’Ente Autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano iniziò l´esproprio dei palchi privati.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 1, III ordine, settore sinistro

Nobili, borghesi e patrioti
Si legge nelle carte dell’Archivio Parrocchiale della chiesa dell’Assunta a Fontaneto d’Agogna (Novara) che fuori dal cancello della Santissima Cappella del Rosario furono sepolti il Marchese Antonio Rovida nel 1804 e la moglie Giuseppina Cottica (o Cuttica) nel 1808. Il marchese Antonio Rovida fu proprietario del palco con la sua famiglia dal 1778 al 1796 e dell’attiguo palco n° 2; gli stessi palchi posseduti al Regio Teatro Ducale prima dell’incendio del 1776.
Dal 1797 al 1812, durante il periodo napoleonico, non vi sono molte fonti relative alla proprietà dei palchi; sappiamo che nel 1809 risulta essere affittuario il Marchese Fossati ovvero Giorgio Fossati de Regibus (1786-1835) che ne diventerà proprietario dal 1818 al 1838.
Dal 1813 al 1817 possiede il palco donna Virginia Cadorna Bossi (1790-1875), sorella di Benigno Bossi, patriota, a sua volta proprietario del palco attiguo. Virginia, con il beneplacito del fratello maggiore Benigno, sposò Luigi Cadorna, con cui generò Carlo, deputato dello Stato Sabaudo nel 1848, e Raffaele che sposa Clementina Zoppi nel 1849: questi ultimi sono i genitori di Luigi Cadorna, generale, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito fino alla disfatta di Caporetto.
Dopo la Cadorna Bossi, titolare del palco un´altra nobildonna: è Luigia Cacciapiatti che, alla morte del marito Giorgio Fossati de Regibus, subentra nella proprietà del palco dal 1839 al 1848. Le fonti tacciono fino al 1856, quando negli elenchi dei palchettisti troviamo il figlio Giovanni Evangelista Fossati de Regibus (1826-1882).
Dal 1859 al 1898 il palco apparterrà ai fratelli Fortis e ai loro eredi. Giulio Fortis, ricco borghese, negoziante e proprietario dell’I.R. Fabbrica privilegiata di stoffe di seta nel borgo delle Grazie 2684 (oggi corso Magenta 90) “investe di procura” anche il figlio Ernesto per rappresentarlo, come si legge nel “Foglio commerciale: notizie di commercio, navigazione e industria”; l’altro figlio era Guglielmo, che durante le Cinque Giornate di Milano, il 18 marzo del 1848, venne imprigionato nelle carceri del Castello (roccaforte del generale Radetzky) con Durini, Appiani, Bellati e molti altri, subendo pesanti interrogatori. Le cronache del tempo narrano che dopo la reclusione di Guglielmo ai Fortis toccarono le rappresaglie dei soldati austriaci che irruppero nel negozio uccidendo un giovane: incontrarono Ernesto Fortis e si fecero aprire la cassaforte, rubando tutto il denaro (20.000 Lire!), devastando magazzini e fabbrica e le abitazioni dei dipendenti. Rubarono argenti, fracassarono mobili, uccisero e terrorizzarono; il vecchio padre Giulio Fortis si finse morto e solo così si salvò. Il danno arrecato ai Fortis fu di oltre 90.000 Lire (paragonabili a 500.000 Euro).
Dal 1883 entra in comproprietà con Ernesto la sorella Giulia, moglie del notaio Achille Marocco, che figurava come socio annuale pagante dell’opera Pia di Patronato pei carcerati e liberati dal carcere nel 1846, in quella visione solidale che accomunò tanti milanesi; anche Giulia, pittrice e amante delle belle arti, sostenne la causa delle Cinque Giornate e divenne promotrice di attività assistenziali nei confronti dei militari e feriti di guerra.
Il Novecento inizia con un nuovo titolare, Lorenzo de Laugier, di antica famiglia valdostana insignita del titolo baronale; sposò nel 1895 Clementina Sormani Andreani detta Mimì e da lei ebbe Enrico e Giulia. Lorenzo de Laugier incaricò gli architetti Antonio Tagliaferri e Gian Battista Casati della progettazione e costruzione della casa milanese che ancora possiamo ammirare in Corso Magenta 96 all’angolo con piazzale Baracca. La casa fu costruita sui resti delle demolite mura spagnole, in stile Liberty. Il barone Laugier mantenne la proprietà del palco sino al 1920, quando si costituì l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano iniziò l´esproprio dei palchi privati.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 2, III ordine, settore sinistro

Nobili, carbonari, banchieri
Si legge nelle carte dell’Archivio Parrocchiale della chiesa dell’Assunta a Fontaneto d’Agogna (Novara) che fuori dal cancello della Santissima Cappella del Rosario furono sepolti il Marchese Antonio Rovida nel 1804 e la moglie Giuseppina Cottica (o Cuttica) nel 1808. Il marchese Antonio Rovida fu proprietario del palco con la sua famiglia dal 1778 al 1796 e dell’attiguo palco n° 1; gli stessi palchi posseduti al Regio Teatro Ducale prima dell’incendio del 1776.
Nel 1809 e 1810, anni del periodo napoleonico, utente del palco figura il marchese Luigi Erba Odescalchi.
Nel 1813 proprietario è Benigno Bossi (1788-1870) e dal 1814 al 1824 il palco viene condiviso tra Benigno e i suoi fratelli Galeazzo e Raffaele. Benigno, nobile, carbonaro e patriota, scriverà le sue memorie durante l’esilio in Svizzera. Nato nel 1788 a Como dal marchese Giovanni e da Clara Rossini, dopo la morte del padre abbandonò gli studi per dedicarsi, quale maggiore di sette fratelli, all’amministrazione dei beni di famiglia. Fu avverso al governo napoleonico come a quello austriaco e a Milano nel 1814 firmò con il generale Domenico Pino, Federico Confalonieri ed altri una petizione al senato di Milano per sfiduciare il viceré Eugenio di Beauharnais. Considererà i tumulti del 1814 un errore politico che favorì l’insediarsi degli austriaci. Continuò la sua opposizione verso gli invasori e quando nel 1820 il governo austriaco decise di ammettere d’autorità nel "casino dei nobili" gli ufficiali austriaci residenti a Milano, i nobili, oppositori degli Asburgo si dimisero: le dimissioni furono respinte e allora quei nobili si impegnarono a uscire da un palco del teatro o da una sala qualora fosse entrato un ufficiale austriaco. L’episodio del “casino dei nobili” spinse Bossi ad unirsi alla società segreta dei carbonari; fece poi parte del comitato insurrezionale e strinse vincoli d’amicizia e contatti politici con Federico Confalonieri e Giuseppe Pecchio. Giovanni De Castro, nel 1882, ci narra che il 28 gennaio 1824, giorno della lettura della sentenza capitale di sedici cospiratori, sette a Milano (lo ricorda ancora una lapide in piazza Beccaria) e nove, tra cui Bossi, in contumacia, i palchi scaligeri rimasero deserti. Bossi riparò a Ginevra dove conobbe Adelina Bertrand-Sartoris che sposò a Londra. Successivamente ritornò in Svizzera dopo il soggiorno di un anno a Bruxelles. Nel 1848, in seguito all´insurrezione delle Cinque Giornate di Milano, il governo provvisorio lo nominò rappresentante presso il governo Palmerston a Londra. Dopo l’esito catastrofico della prima guerra d’indipendenza nel 1849, Bossi ritornò a vivere stabilmente in Svizzera dove nel 1864 fu eletto a rappresentare l’Associazione italiana di soccorso per i soldati feriti o malati in tempo di guerra presso la Società ginevrina di utilità pubblica. Morì a Ginevra nel 1870.
Dal 1825 al 1833 il palco fu di proprietà di Donna Eleonora Fossani. Il suo nome si trova fra i soci di varie associazioni benefiche e in particolare risulta con suo marito Luigi tra gli “azionisti contribuenti al mantenimento degli Asili di Carità per l’infanzia in Milano”. I coniugi Fossani abitarono in contrada San Bernardino in Porta Ticinese.
Dal 1834 al 1868 il palco passò a Guglielmo Ulrich (1787-1867), banchiere danese, protestante. Fu membro di diverse associazioni e, fra le altre, fu Socio Perpetuo della “Pia Opera di Patronato pei carcerati e liberati dal carcere”. Fu tra coloro che, con l’avanzare del secolo, diversificarono e ampliarono le loro attività non operando solo nel campo della finanza. Nel ’37 fu Consigliere di Vigilanza del Monte delle Sete, nel ‘39 fu uno degli amministratori dell’impresa per rintracciamento, scavo e vendita fossili combustibili nel Regno Lombardo-Veneto. Dal 1838 fu membro del direttivo della Società di Incoraggiamento Arti e Mestieri attiva nella modernizzazione dei processi produttivi. Come membro del Governo Camerale di Commercio nel 1848, al rientro di Radetzky a Milano, Guglielmo Ulrich chiese al neoeletto sindaco degli agenti di cambio di riaprire la Borsa per favorire il ritorno alla normalità. E sempre nel 1848 allorché il feldmaresciallo Radetzky impose un prestito forzoso di un milione e mezzo a carico dei commercianti iscritti nel ruolo delle tasse d’arte e commercio per la somministrazione dei generi di sussistenza occorrenti all’Imperial Regia armata in Italia, alla ditta Ulrich e Brot fu comminata la quota di Lire austriache 20.000; ne pagarono 16.000. Non mancò di offrire un suo contributo sia per la costruzione del tempio protestante a Milano, ancora oggi in via De Marchi, sia per il mantenimento del culto. La Banca Ulrich fu attiva a Milano dal 1825 al 1845, quindi, nei dieci anni successivi, come Ulrich e Brot (Brot era un banchiere svizzero), per poi ricostituirsi di nuovo come Ulrich e C. fino al 1895.
La Sede della Ulrich e C. fu Via Bigli 21, dove abitava la famiglia. Gli Ulrich parteciparono vivamente alla vita sociale ed economica milanese: Guglielmo fu tra i fondatori della Società dell’Unione costituita nel 1841, della Società del Giardino (1873) e consigliere di altre imprese e banche. Dopo l’Unità d’Italia negli elenchi dei soci appaiono i figli: Edmondo fu Consigliere della Banca Nazionale delle Costruzioni, membro del Consiglio di amministrazione della Compagnia d’Assicurazioni “Reale Vita”, reggente della sede di Milano della Banca d’Italia. Fu anche azionista della Società Generale Italiana di Elettricità sistema Edison, assieme al cognato Achille Villa, marito della sorella Emma. La Società Edison, per iniziativa dell’ingegnere Giuseppe Colombo, costruì a Milano la prima centrale elettrica dell’Europa continentale in via di Santa Radegonda, traversa di piazza Duomo, nell’area oggi occupata dalla Rinascente. Il 26 dicembre 1883, giorno d´apertura della Stagione con una riresa della Gioconda di Ponchielli,la luce elettrica arriva alla Scala sino a quel momento illuminata a gas: le lampade in totale erano 2.800, potevano però essere funzionanti in contemporanea 2.640, con un potere illuminante di 37.500 candele. La Scala fu il primo teatro d’opera al mondo a essere illuminato da energia elettrica.
Alla morte di Guglielmo nel 1869, i figli continuarono nella gestione della banca e nelle altre attività. Il palco alla Scala, invece, passò alla madre Francesca Ulrich Rossi e successivamente ai figli Alberto, Alfredo, Oscar ed Edmondo, palchettisti come fratelli Ulrich sino al 1920, quando, con l´istituzione dell´Ente Autonomo Teatro alla Scala, la proprietà dei palchi passò al Comune di Milano.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 3, III ordine, settore sinistro

Il palco di un’illustre famiglia milanese
A Milano la Biblioteca Comunale Sormani è un’istituzione conosciutissima. La maggior parte degli studenti l’ha visitata o ne conosce l’ubicazione in Porta Vittoria. Dire Palazzo Sormani è dire la biblioteca della città, ma il palazzo è anche parte della storia di famose famiglie milanesi e quindi non solo della famiglia Sormani: infatti esisteva già nel XVI secolo; fu di proprietà del marchese Giambattista Castaldo, generale imperiale che partecipò alla battaglia di Pavia e al sacco di Roma del 1527. Nella seconda metà del Cinquecento l’edificio passò alla potente famiglia dei Medici di Marignano, nel secolo successivo fu acquistato dal cardinale Cesare Monti che diede all’architetto Francesco Maria Richini l’incarico di abbellirlo e ampliarlo. Nel 1783 la proprietà venne venduta agli Andreani che si imparentarono con i Sormani grazie al matrimonio di Cecilia con Pietro Paolo Andreani, genitori di Gian Mario (1760-1830) e del più famoso Paolo (1763-1823), viaggiatore, aeronauta e primo in Italia a sperimentare nel 1784 il volo in mongolfiera.
I genitori di Cecilia erano Antonio Sormani Giussani (1689-1763), che nel 1746 era stato erede fidecommissario del Marchese Federico Giussani, da cui provengono i beni di Lurago e del quale assunse il nome, e Francesca Bonenzio (1703-1777) che acquistò il palco n° 3 del III ordine sinistro in quanto proprietaria del palco che aveva la medesima posizione al Regio Teatro Ducale, come si legge nell’Archivio Borromeo Arese. Nel 1778 Francesca risulta proprietaria del palco insieme al figlio Lorenzo, ma in realtà non ne vide la realizzazione in quanto morì l’anno precedente all’apertura della Scala. Negli anni successivi, fino agli anni ’30 dell’Ottocento saranno i suoi figli maschi Giuseppe, Alessandro (1740-1825) e Lorenzo Sormani Giussani (1741-1821) a mantenere la proprietà del palco.
Lorenzo, sposatosi con Marianna Crevenna, è il padre di Giuseppe (1771-1840) che non userà più il cognome Giussani, ma nel 1831 aggiungerà al suo quello di Andreani ereditato dal cugino Gian Mario, fratello di Paolo l’aeronauta, divenendo così anche proprietario del palazzo di Porta Vittoria che rimarrà della famiglia fino alla vendita al Comune di Milano nel 1930. Giuseppe è ciambellano di S.M.I.R.A., conte imperiale austriaco, presidente del Conservatorio di Milano, nonché consigliere comunale. Subentra al padre nella proprietà del palco nel 1834. Da allora il palco sarà di proprietà dei Sormani Andreani fino al 1882 attraverso il figlio Alessandro e poi i nipoti Lorenzo e Pietro.
Alessandro Sormani Andreani (1815-1880), proprietario del palco dal 1841 al 1880, sposò Carolina Verri, figlia ed erede del conte Gabriele e di Giustina Borromeo Arese.
Il figlio Pietro nel 1904 aggiunse il cognome della madre al suo divenendo Pietro Sormani Andreani Verri (1849-1934). Pietro fu prima deputato e poi senatore del regno, presidente della Casa di riposo per musicisti “Giuseppe Verdi” di Milano (1909-1934), Consigliere della Società delle belle arti di Milano e Socio della Società geografica italiana (1876). Fino al 1908 Pietro fu comproprietario del palco con il fratello Lorenzo Sormani Andreani (1843-1913), collezionista e socio della Società Numismatica Italiana, che poi lo conserverà da solo fino alla morte. Lorenzo aveva ereditato la collezione numismatica di Pietro Verri dalla madre Carolina e fu anche sindaco di Lurago.
Nel 1914 subentrò quale proprietario del palco il figlio di Pietro, Alessandro Sormani Andreani Verri (1882-1944), che nel 1907 aveva sposato Augusta Vanotti. La nipote di Pietro, Luisa, figlia di Antonio (1909-1954) depositerà poi l’archivio di famiglia presso l’Achivio di Stato di Milano (fondo Sormani).
I Sormani possedettero più palchi alla Scala in diversi periodi, ma questo è il solo che la famiglia detenne dall’apertura del teatro sino al 1920, quando il Comune di Milano insieme alla Società dei palchettisti costituì l’Ente Autonomo Teatro alla Scala che pose fine alla proprietà privata dei palchi.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 8, III ordine, settore sinistro

Dai primi agli ultimi nobili
Dal 1778 al 1782 il palco è in comproprietà tra il marchese Carlo Gerolamo Bonacossa (dal 1780 la proprietà viene indicata come “casa Bonacossa”) e il marchese Giuseppe Viani (1733-1783). Quest’ultimo, già palchettista del Teatro Ducale, era stato eletto nel marzo del 1776 dal Corpo dei Palchettisti tra i dodici Consiglieri Delegati ai quali veniva demandata la facoltà di trattare con l’arciduca, l’architetto Piermarini e la ditta appaltatrice e di decidere a nome di tutti i palchettisti sulla costruzione del nuovo Teatro alla Scala. Il marchese ricopre anche l’incarico di cassiere della Società dei palchettisti ma nel settembre del 1777 si dimette da entrambi gli incarichi a seguito di una controversia sull’assegnazione dei palchi di IV ordine.
Al pari di altri illustri patrizi Giuseppe Viani è proprietario di più di un palco: oltre a quello in comproprietà con Bonacossa, ne possiede uno in IV ordine (n° 7, settore destro) e uno centrale nel più prestigioso I ordine (n° 12, settore sinistro) dei quali è proprietario unico. Di Bonacossa non si conoscono eredi, il marchese Viani invece ha una sola figlia, Maria Teresa (1761-1845), sposata nel 1785 con il marchese Giulio Dugnani, la quale insieme al patrimonio paterno eredita due dei palchi. Il palco n° 8 in III ordine, invece, nel 1783 risulta intestato ad Angiola Cattaneo (?-1809), coniugata con Carlo Righini.
Durante il dominio francese utente del palco è Leopoldo Staurenghi, dal 1800 al 1802 commissario della Repubblica Cisalpina e quindi nel 1809 titolare della prefettura del Rubicone; nel 1810 ne usufruisce il marchese Francesco Cusani Visconti.
Nel 1813, con le prime sconfitte di Napoleone, il palco n° 8, come molti altri, ritorna alle famiglie dei vecchi proprietari e, nel nostro caso, alla baronessa Carolina Righini (1777-1818), erede della madre Angiola Righini Cattaneo, coniugata con il barone Emanuel von Schlieben “capitano di piazza” dell’I. R. esercito asburgico. Morta Carolina, il palco dal 1818 ha come nuovo proprietario Antonio Rejna, assessore, giudice di pace e quindi podestà di Gallarate, benefattore dell’Ospedale di Sant’Antonio abate per legato testamentario del 1824 e proprietario anche del palco n° 7, II ordine destro.
Dal 1835 al 1839 intestatario è Carlo Ottavio Castiglioni (1785-1849) conte di Garlasco, figlio di Alfonso e di Eleonora Crivelli, discendente da un’antica famiglia patrizia milanese che nel Medioevo aveva dato alla chiesa due pontefici, Urbano II e Celestino IV, e tre cardinali arcivescovi di Milano. Il padre, deputato dalla Congregazione dello Stato di Milano presso la corte degli Asburgo, si era trasferito con la famiglia a Vienna nel 1791, cosicché il giovane Castiglioni aveva avuto modo di acquisire un’ottima conoscenza della lingua tedesca. Ritornato a Milano nel 1794 aveva quindi approfondito lo studio delle lingue classiche (greco, latino, sanscrito) e moderne (francese, inglese, spagnolo, portoghese olandese, ma anche arabo, turco, persiano). Nel 1815 sposò Carolina Borromeo Arese, figlia di Giberto marchese di Angera, dalla quale ebbe due figlie che attraverso i loro matrimoni rinsaldarono i legami con l’élite della nobiltà lombarda: Luigia sposa Giovanni Ambrogio Cornaggia Medici della Castellanza ed Elisabetta Gerolamo Litta Modignani. Castiglioni si valse delle sue conoscenze linguistiche per riordinare la raccolta di monete arabiche di Brera su invito di Gaetano Cattaneo direttore del Gabinetto numismatico di Brera, redigendo un preciso catalogo, pubblicato nel 1819, che includeva la successione di califfi e sultani che dominarono le regioni dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa cui quelle monete appartenevano. Grazie ai suoi studi di glottologia e di filologia germanica fu chiamato da Angelo Mai, insigne filologo e cardinale, a decifrare alcuni palinsesti della Biblioteca Ambrosiana scritti in antico alto tedesco e in caratteri gotici. Dell’ampiezza dei suoi interessi e dei suoi studi diede prova pubblicando una storia della lingua copta. A coronamento e riconoscimento del suo valore di studioso l’imperatore d’Austria Ferdinando I lo nomina nel 1840 Presidente dell’Istituto Lombardo di scienze e lettere.
Già nel 1836 il Castiglioni aveva ceduto il palco a Giovanni Paolo Ravizza (1765-1844), benefattore dell´Istituto dei Ciechi e padre di Giuditta e Clara; quest´ultima lo eredita nel 1845, mantenendone il possesso per mezzo secolo. Clara Ravizza (1811-1898), socia della Società delle belle arti, sposa nel 1846 Giovanni Masciaga, dottore in legge e socio benemerito della Regia Accademia Raffaello d’Urbino che gli dedica il volume degli Atti del 1873; quindi, in seconde nozze nel 1885, Luigi Podestà, facoltoso possidente di ben ventisei anni più giovane. Creato nobile da Umberto I e insignito dell’onorificenza di Gran Cordone della Corona d’Italia, Luigi Podestà fu consigliere provinciale di Novara, sindaco di Divignano, deputato al parlamento dal 1898 al 1913, anno in cui venne nominato senatore del regno. Nel suo fascicolo presso la biblioteca del Senato si legge che fu valente amministratore quale sottoprefetto e regio commissario straordinario nei comuni di Vigevano, Lodi e Oneglia. Dalla stessa fonte apprendiamo che fu anche un appassionato collezionista di oggetti d’arte custoditi nella sua villa a Monza e nel castello di Divignano, piccolo borgo in provincia di Novara. Nel 1897 Luigi Podestà (1838-1929) eredita dalla moglie il palco e ne mantiene la proprietà sino al 1920, anno in cui si costituisce l’Ente Autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 11, III ordine, settore sinistro

I Taccioli: una famiglia di negozianti tra Ghiffa e Milano
Il primo proprietario del palco, dall’inaugurazione del Teatro al 1793, è don Giovanni Antonio Rossi; nel 1794 passa ad Antonio Cambiago (1769-1831) e l’anno dopo alla moglie Giuseppa.
Il 12 febbraio 1802 un atto notorio sancisce l’acquisto per L. 21.000 da parte dei fratelli Luigi (1764-1847) e Francesco Taccioli (1753-1805). Originari di Ghiffa, piccolo paese sul Lago Maggiore, i Taccioli alla fine del Seicento vendevano carbone (donde il nome “tencin”). Nel 1726 abbiamo la notizia di un loro “negozio” di vino a Milano e intorno al 1750 la famiglia risulta residente a Milano e il commercio del vino è l’attività economica principale. Nella seconda metà del secolo si assiste all’acquisto di terreni per la produzione e commercio di grano e olio, con appalti molto importanti come l’approvvigionamento del pane all’Ospedale Maggiore di Milano. Alla morte del padre Gaetano (1780), Luigi e Francesco investono nella coltivazione del baco da seta con l’apertura di una prima filanda a Casalmaggiore nel 1793. La crescita di risorse monetarie spinge la famiglia di mettere a frutto tali capitali attraverso la concessione di prestiti e a svolgere un’attività parabancaria.
All’inizio dell’Ottocento i Taccioli sentono l’esigenza di affermare la loro ascesa sociale ed economica dando un’immagine più consona allo “status” a cui aspirano. Nel 1803 acquistano una casa nobiliare a Milano in via Pantano nel centro storico della città, con ampio giardino, cortile di rappresentanza e una spaziosa biblioteca. Ma il simbolo più rappresentativo del loro prestigio è l’acquisto di un palco alla Scala nel 1802 al quale ne segue un altro nel 1836 (n° 13, ordine IV, settore destro). Inoltre un’accorta politica matrimoniale permette a Luigi di entrare in rapporto con l’alta borghesia milanese. Nel 1806 sposa Giulia Clerichetti, figlia di un affermato commerciante nel settore della seta, attivo nel mondo finanziario e creditizio milanese; zio della sposa è l’avvocato Rocco Marliani, figlio di Pietro, uno dei tre costruttori della Scala, uomo di primo piano dell’establishment politico-istituzionale cisalpino e quindi napoleonico, dal 1811 giudice della corte d’appello di Milano.
La crescita dell´attività economica continua durante gli anni francesi, grazie all’espansione del commercio della seta a livello internazionale e a una fortunata serie di investimenti in immobili. Alla morte di Luigi i figli Gaetano (1811-1877) ed Enrico (1815-1874) ereditano un patrimonio notevole che comprende, oltre ai due palchi alla Scala, terreni agricoli, un palazzo ed altre unità immobiliari a Milano, la Villa Mirabello di Varese, la Villa di Affori al centro di un’enorme tenuta. Non mancano neanche preziosi oggetti d’arte come una Madonna con Bambino di Bernardino Luini. Gaetano rimane scapolo mentre Enrico sposa nel 1844 Giulia Castiglioni, appartenente ad un illustre casato nobiliare. Dopo la morte precoce della moglie nel 1845, Enrico convola a nozze con Selene Ruga, figlia di Carlo, esponente di una ricca famiglia borghese con forti interessi nel settore bancario.
Le due figlie di Enrico, Margherita (1854-1882) e Giulia (1850-1901) ereditano il palco e si legano ad una delle più antiche famiglie patrizie milanesi, i Litta Modignani, sposando rispettivamente Giovanni (1845-1905) e il cugino Gianfranco (1844-1889). Morta Margherita senza figli, l’intero palco rimane di proprietà di Giulia e quindi dal 1902 al 1917 dei suoi figli Enrico e Gaetano Litta Modignani.
L’ultimo proprietario (1918-1920), estraneo all’asse ereditario, è il ragioniere e commendatore Edoardo Bertoni.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 16, III ordine, settore sinistro

Imprenditori e benefattori
Pietro Marliani, i fratelli Fè e Pietro Nosetti furono i costruttori del Teatro alla Scala (e della Canobbiana), edificato su progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini, in seguito all’incendio che nel febbraio 1776 qveva distrutto il Teatro Ducale. All’apertura del nuovo teatro nel 1778 Marliani risulta proprietario di tre palchi: n. 16, III ordine, settore sinistro; 19 e 20, IV ordine, settore sinistro. È possibile che abbia ricevuto i tre palchi come parziale pagamento dei lavori per la costruzione del teatro. Pietro Marliani è un ex-fermiere, ovvero esattore delle tasse, (la ferma generale, istituita nel 1750, era stata abolita nel 1770), che aveva accumulato una cospicua fortuna con questa attività e l’aveva investita nel settore delle costruzioni, in società con imprenditori edili “puri” come il milanese Pietro Nosetti e i fratelli ticinesi Giuseppe e Antonio Fè. Questi ultimi erano ben introdotti nella corte arciducale di Ferdinando d’Asburgo, grazie al quale si erano aggiudicati, sempre in società con Marliani, diversi appalti di opere pubbliche, il più grosso dei quali fu la realizzazione del Naviglio di Paderno Dugnano, per un importo di 1.800.000 Lire, più del doppio di quello per i due nuovi teatri (894.000 Lire).
Nel 1789 il palco viene ereditato dal figlio Rocco (1752-1826), persona in vista nella Milano durante il ventennio francese: principe del foro, giudice di corte d’appello e senatore del Regno d’Italia. Sposato con Amalia Masera, definita da una fonte coeva “di peregrina beltà e castigatezza di costumi,” acquistò a Erba nel 1799 l’ex convento di Santa Maria degli Angeli che fece trasformare dall’architetto viennese Leopold Pollack in una sontuosa “villa di delizie”. Qui e nei palchi di famiglia alla Scala ebbe come ospiti il pittore Andrea Appiani, lo scultore Antonio Canova scrittori e poeti come Stendhal, Giuseppe Parini, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo. Quest’ultimo ebbe una relazione sentimentale con la bellissima figlia di Rocco, Maddalena, giovane sposa (appena quindicenne) del banchiere Paolo Bignami, celebrata dal Foscolo nel poema Le Grazie. Sulla bellezza di Maddalena è noto l’apprezzamento del generale Bonaparte che, incontrandola al Teatro la Canobbiana in un sinuoso abito da seta, nonostante il divieto della commercializzazione di tale tessuto, abbagliato dalla sua bellezza, le si rivolge con queste parole: “Madame je oublierai votre toilette en raison de votre beauté”. Rocco Marliani ha anche un figlio musicista, Marco Aurelio, assiduo frequentatore del palco. Cresciuto con sentimenti antiaustriaci, dopo la morte del padre, venduto insieme alla sorella il palco alla Scala, nel 1830 si trasferisce a Parigi. Qui perfeziona i suoi studi musicali con Rossini debuttando al Théâtre des Italiens con il dramma tragico Il Bravo, con interpreti di grido quali il soprano Giulia Grisi e il tenore Giovanni Battista Rubini. Ritornato dopo alcuni anni in Italia raccoglie un discreto successo alla Scala nel 1843 con l’opera tragica Ildegonda e il suo nome compare spesso nelle riviste musicali di quegli anni abbinato a BelliniVincenzo Bellini e DonizettiGaetano Donizetti. Prende parte alla prima Guerra d’indipendenza, ma muore nel 1849 per le ferite riportate in battaglia.
Il palco nel 1830 viene acquistato dal cavaliere Antonio Gargantini <1.> (1773-1844) e rimane di proprietà della famiglia per oltre per 65 anni, sino al 1895. Antonio è banchiere, con sede in Corsia del Giardino (oggi via Manzoni) e ricco possidente, benefattore dell’Istituto dei Ciechi, annoverato tra i soci promotori della Società d’Arti e Mestieri. Comproprietario per alcuni anni risulta il fratello Cesare (morto nel 1837), proprietario terriero illuminato, tanto da ordinare nel 1832 a una fabbrica di Monza 1.800 braccia di tessuto ricavato di cascami di seta per farne coperte adestinate ai suoi contadini. Nel 1815 i due fratelli erano stati insigniti della più alta onorificenza dell´impero asburgico, Cavaliere dell’Ordine del Toson d’oro.
Nel 1845 il palco passa in eredità al nipote di Antonio, Antonio Gargantini <2.> (1819-1891), avvocato, presumibilmente figlio di Cesare, che in onore dello zio farà due cospicui lasciti all’Istituto dei ciechi e all’Ospedale Maggiore, ottenendo di poter depositare altrettanti ritratti dello zio straordinariamente simili nonostante gli artisti diversi. Nel 1836 sposa Luigia Carozzi dalla quale ha tre figli: Cesare (1837-1913), rimasto probabilmente celibe, Giovanna detta Jeannette (1837-1932), benefattrice dell’Ospedale Maggiore e Giulia (1839-1913). Queste, eredi del patrimonio paterno, sposano due rampolli di antiche e illustri famiglie patrizie milanesi, entrambi con un palco di famiglia alla Scala: il conte Francesco Dal Verme che edificherà nel 1872 il Teatro che porta il suo nome e il conte Luigi Archinto.
Nel 1896 nuovi proprietari del palco sono i fratelli il cavalier Primo (1856-1946) e l’ingegner Secondo Bonacossa (1866-1902) figli di Luigi, appartenenti a una dinastia di imprenditori della seta protagonisti della rivoluzione industriale in Lomellina. Essi furono i primi della famiglia a possedere un palco alla Scala. Il capostipite, Vincenzo Bonacossa (1810-1892), aprì la prima filanda a Dorno (provincia di Pavia) nel 1868 alla quale ne seguì una seconda a Vigevano nel 1872, assorbendo negli anni seguenti numerose filande per varie ragioni in crisi a sud di Milano e in città stessa a cui si dedicarono i quattro figli di Vincenzo: Luigi (1834-1904), Pietro (1838-1931), Giuseppe (1841-1908), Cesare (1850-1919). A Milano, nell’area antistante il Castello Sforzesco, Luigi fece costruire a partire nel 1894 un palazzo su progetto dell’architetto Antonio Comini ispirato al Rinascimento italiano: il pian terreno decorato con monofore e il primo piano sono coperti in un bugnato ripreso dal palazzo dei Diamanti di Ferrara, mentre il secondo e il terzo piano è costruito con un differente tipo di bugnato e bifore chiaramente ispirato a Palazzo Strozzi di Firenze.
Scomparso prematuramente Secondo Bonacossa nel 1902 a soli 36 anni, gli successero nella proprietà del palco le figlie Caterina (1890-1976) e Zelmira (1892-1966) che lo tennero insieme allo zio Primo sino al 1910. Nell’arco di tre generazioni i Bonacossa si rivelarono non solo validi imprenditori, ma anche scrittori, sportivi, tennisti a livello internazionale, alpinisti, editori (Alberto, figlio di Cesare fu proprietario della Gazzetta dello sport), studiosi di culture orientali (Cesare junior all’università di Pavia), ma soprattutto grandi filantropi. Tra i lasciti a Dorno, loro paese d’origine, si annoverano un asilo infantile, la casa di riposo “San Giuseppe”, un nuovo edificio per il Municipio, la recinzione del cimitero, la Società di mutuo soccorso; tra i figli di Vincenzo, il più munifico fu Primo, morto novantenne nel 1946: lasciò 100 appartamenti al Piccolo Cottolengo “Don Orione” di Milano.
Dal 1911 al 1917 proprietario del palco è Enrico Zonda (1871-1925), industriale nel ramo vinicolo. A lui e al fratello Emilio si deve la costruzione al Policlinico del padiglione di chirurgia che fu innalzato tra il 1913 e il 1915 con una spesa di 300.000 lire, sull’area disponibile di fianco ai Padiglioni Beretta, di proprietà dell’Ospedale Maggiore. Il padiglione è intitolato a “Enrico e Emilio Zonda”.
Dal 1918 ultimo proprietario del palco è Piero Coppo, brillante laureato del Laboratorio di Economia politica della Regia Università di Torino e tenente nella prima guerra mondiale. Piero Coppo lo cede nel 1920 al Comune in base alla convenzione tra i palchettisti e il Comune di Milano che segna la fine della proprietà privata dei palchi e la nascita dell’Ente Autonomo Teatro alla Scala.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 10, IV ordine, settore sinistro

Funzionari governativi e patrioti antiaustriaci
Il 20 marzo 1778 il palco venne acquistato dagli eredi del principe Antonio Tolomeo Trivulzio al prezzo di 3.500 Lire austriache, quota fissa per coloro che avessero rinunciato al possesso di un palco nel Teatro Piccolo o della Canobbiana; gli eredi Trivulzio lo cedono, sempre nel 1778, a Giuseppe Londonio; ad acquistarne la definitiva proprietà è Casa Ciani ovvero la famiglia del Canton Ticino, originaria del paese di Leontica nella Val di Blenio. Solo nel 1809 compare accanto al nome Ciani, utente per i giorni pari, quello di Felice Rovida, consigliere di stato della Repubblica Italiana sotto Napoleone. Primo proprietario di casa Ciani è Carlo Ciani <1.> (1738-1813), annoverato tra i banchieri e negozianti, membro della Camera di commercio e della Borsa della quale diviene sindaco (oggi si direbbe presidente) nel triennio 1810-1812; di simpatie francesi, viene nominato nel 1796 nella Congregazione municipale, presieduta dal generale Despinoy, comandante della piazza di Milano, che s’insedia con l’arrivo di Bonaparte a Milano. Carlo Ciani abita nella centrale via Meravigli, in un palazzo sede d’incontri di intellettuali e artisti come Gioachino Rossini, Ugo Foscolo, il pittore Andrea Appiani, Giuseppe Bossi, lord ByronGeorge Gordon Byron, ma anche di cospiratori antiaustriaci come Cesare Cantù e Federico Confalonieri. Quest’ultimo utilizzava l’indirizzo di casa Ciani per poter ricevere e inviare la corrispondenza al sicuro dalla polizia austriaca.
Due figli di Carlo, Giovanni e Carlo <2.> ereditano il palco del padre; altri due, Giacomo e Filippo, patrioti risorgimentali esiliati in seguito ai moti del 1821, si stabilirono a Lugano dove conobbero e sostennero Giuseppe Mazzini; gestivano una tipografia in cui stampavano opuscoli clandestini risorgimentali distribuiti ai frequentatori del castello di Lugano di proprietà di Giacomo e a Villa d’Este sul lago di Como, divenuta negli anni immediatamente precedenti il 1848 luogo d’incontri patriottici. La sorella Francesca nel 1808 va in sposa a Carlo Camperio, membro della borghesia agraria originaria di Binasco, anch’egli palchettista scaligero (n° 16, III ordine sinistro).
Dal 1841 al 1849 il palco è intestato a un alto funzionario dell’amministrazione asburgica, l’ingegnere Stefano Delmati, responsabile dell’archivio catastale e componente dell’I. R. Giunta del Censimento del Regno Lombardo Veneto.
Dal 1856 il palco è proprietà di un altro ingegnere, Giuseppe Tarantola, consigliere municipale di Milano nella Lombardia ancora asburgica e tra i firmatari dell’accorato appello all’ordine in occasione dell’attentato all’imperatore Francesco Giuseppe I; ma già dopo tre anni giace in eredità e quindi dal 1863 passa alla figlia Clementina Tarantola (1803 -1884) coniugata nel 1856 con il patrizio romano conte Cesare Borgia (1830-?), Cavaliere d’onore e devozione e Commendatore ereditario dell’Ordine gerosolimitano di Malta. Le succede nella proprietà del palco il figlio conte Francesco Borgia (1863-1924) che sposa nel 1885 la marchesa Eugenia Litta Modignani (1861-1908), figlia di Giulio, rafforzando i legami già esistenti fra le rispettive famiglie, in quanto Paolo Litta Modignani, fratello di Giulio, aveva sposato Alcmena Borgia, sorella di Cesare, il padre di Francesco.
L’ultima proprietaria del palco dal 1917 è Iole Arnaboldi, vedova Garrone. La famiglia Arnaboldi-Garrone, originaria di Stradella, aveva avuto un amministratore d’eccezione delle proprietà terriere e del Castello di Montecastello - fortezza medievale adattata poi a palazzo - nel giovane Agostino Depretis, il futuro ministro e presidente del Consiglio, all’epoca alle soglie della sua carriera politica; dagli Arnaboldi - curiosità - discende Letizia Moratti primo sindaco donna del capoluogo lombardo. La vedova Garrone rimane titolare sino al 1920, quando il teatro diverrà Ente autonomo e la storia della proprietà privata dei palchi volgerà alla sua fine.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 11, IV ordine, settore sinistro

Il palco dell’editore Francesco Lucca
Acquistato dal conte Angelo Maria Serponti (1750-1802) nell´asta del 30 marzo 1778 per Lire 4110 austriache, il palco lo vede titolare sino al 1796: figlio cadetto di Giovanni Giorgio, marchese di Mirasole, e di Maria Margherita Durini, rimasto celibe, non ha eredi diretti. Negli anni napoleonici e fino alla Restaurazione è intestato al conte Pietro Mandelli (1749-1815), che pure muore senza figli; tuttavia il palco resta in famiglia: ne è erede dal 1817 il nipote, conte Alessandro Rescalli (1786-1843), figlio di Carlo Gerolamo e di Teresa sorella di Pietro e coniugato con Giuditta Canzi, dama di Milano ammessa alla corte. Rescalli usufruisce del palco per quasi quarant´anni, assistendo ai trionfi di RossiniGioachino Rossini, all’affermazione di BelliniVincenzo Bellini e DonizettiGaetano Donizetti e, nel 1842, al primo successo di VerdiGiuseppe Verdi, Nabucco.
Alla morte di Alessandro il palco passa al figlio Paolo Gerolamo, mecenate e promotore delle arti, socio onorario dell’Imperial Regia Accademia delle Belle Arti, presidente onorario della Società Universale per l’Incoraggiamento delle Arti con sede a Londra, Cavaliere del Sovrano Ordine militare ospedaliero Gerolosimitano, ma anche banchiere e imprenditore attivo in diversi settori dell’economia: concessionario da parte del Governo austriaco della costruenda linea ferroviaria Milano-Pavia, promotore insieme al duca Raimondo Visconti di Modrone, al conte Francesco Annoni e altri di una sottoscrizione per il collegamento ferroviario da Monza a Lecco, concessionario di una miniera di lignite nel territorio di Sogliano in provincia di Forlì. Nei suoi numerosi affari coinvolge la moglie, Anna Gropallo, spesso intestataria delle proprietà, proveniente da due famiglie che annoverano numerosi palchettisti, a partire dal nonno paterno Gaetano Gropallo e dalla madre Laura Pertusati.
Nel 1863 il palco viene acquistato da Francesco Lucca (1802-1872), violinista alla Scala e alla Canobbiana, ex-apprendista incisore presso Ricordi. Lucca aveva fondato l’omonima casa editrice musicale nel 1825 e sarà per gran parte del secolo il più serio concorrente di Ricordi. Nel 1832 sposa Giovannina Strazza, giovane e intraprendente, che subito affianca il marito nella gestione della ditta, dimostrando notevole spirito e capactà imprenditoriali, abile soprattutto nei rapporti personali con compositori (fu amica di Bellini), cantanti e librettisti. In mancanza di una legislazione sul diritto d’autore e di una normativa che regolasse i rapporti tra editore e compositore, Ricordi e Lucca danno vita per oltre cinquant’anni a un’intensa battaglia per la conquista delle novità musicali, anche con risvolti giudiziari, che ebbe notevole influenza sulla produzione italiana e sulla diffusione della musica straniera in Italia. Nel 1847 Lucca pubblica un nuovo periodico, il settimanale L’Italia musicale, diretto concorrente della Gazzetta musicale di Milano fondata da Giovanni Ricordi cinque anni prima. La bruciante sconfitta per la conquista dei diritti della musica verdiana a vantaggio di Ricordi spinge Lucca a cercare un’alternativa all’impero melodrammatico creato da Ricordi e Verdi; diviene così il principale sostenitore di giovani compositori emergenti come Ponchielli, Catalani, Gomes, Ricci, Petrella, Smareglia, Pedrotti, Franchetti e altri. Ma la coraggiosa operazione di Lucca non riguarda tanto il repertorio del melodramma italiano quanto quello del teatro musicale europeo. Egli apre dunque le frontiere, facendo conoscere al pubblico italiano il grand opéra parigino e l’opera romantica tedesca, acquisendo dagli editori stranieri anche il diritto di metterle in scena, contribuendo in questo modo decisivo alla sprovincializzazione della musica italiana. La principale nuova sfida editoriale si chiama Wagner: Francesco Lucca muore però nel 1872, dopo il successo nel 1871 del Lohengrin, prima esecuzione in Italia di un’opera wagneriana, rappresentata al Comunale di Bologna sotto la direzione di Angelo Mariani.
La vedova Giovannina Strazza (1810-1894), nominata erede universale, assume la direzione della ditta e mantiene il palco alla Scala. L’obiettivo primario della sua strategia editoriale è la diffusione della musica di Wagner. Il clamoroso crollo del Lohengrin alla Scala nel 1873 la costringe a una lunga attesa prima di promuovere la messa in scena di altre opere del compositore tedesco. Alla fine, ormai anziana, decide di accettare l’offerta di Giulio Ricordi di comprarle l’azienda di famiglia, ponendo fine a una guerra commerciale durata oltre sessant’anni. Il contratto di cessione è stilato il 30 maggio 1888: vengono ceduti a Ricordi i macchinari, le lastre, l’intero magazzino, i diritti su tutte le opere proprietà di Lucca. Dal punto di vista legale si tratta apparentemente di una fusione tra due società, nei fatti si rivela una vendita totale. L’importo pagato da Ricordi è altissimo, 1.500.000 lire. L’imponente catalogo Lucca era giunto a circa 47.000 numeri e conteneva opere di oltre 2500 compositori e più di 230 libretti; inoltre il fondo manoscritti comprendeva 250 opere teatrali.
Giovannina Strazza muore a Milano nel 1894, lasciando un’eredità di circa 3.000.000 di Lire divisa tra i numerosi parenti. Il palco, con atto notarile del 3 settembre 1894, va al nipote, Gustavo Strazza, figlio del fratello Giovanni Strazza, scultore: Gustavo, ingegnere impegnato nella costruzione dei “tramvai” nella provincia milanese, appassionato di cavalli, uscito volontariamente nel 1896 dalla Ricordi & C. lasciando il posto tra gli altri alla palchettista Laura Giulini vedova di Enrico Ricordi, è ultimo proprietario sino al 1920, anno nel quale il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi e si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 13, IV ordine, settore sinistro

I palchettisti che fecero grande Milano
I Crivelli, originari di Cuggiono in provincia di Milano, furono una delle più antiche e potenti famiglie patrizie lombarde, annoverando nel corso dei secoli alti dignitari di corte, ambasciatori, cavalieri di Malta e, nel Medioevo, persino un papa, Urbano III (Uberto Crivelli, 1120-1187). Imparentati con casati di pari dignità nobiliare, dai Borromeo ai Serbelloni, ai Belgiojoso, ai Bigli, ai Trivulzio, la loro discendenza nel tempo si è articolata in diversi rami, uno dei quali - i marchesi di Agliate - comprende una dinastia di palchettisti al Teatro alla Scala. Come molte altre famiglie nobili di alto lignaggio i Crivelli possedevano più di un palco: al momento dell’apertura del Teatro nel 1778, avevano il n° 18 nell’esclusivo I ordine, settore destro, e il n° 13 nella quarta fila acquistato all’asta del primo aprile 1778 per 4900 Lire austriache. Proprietario di entrambi i palchi fu il marchese Tiberio Crivelli (1737-1804), ciambellano imperiale e assessore del Tribunale Araldico di Milano, coniugato con la marchesa Fulvia Bigli (1741-1828), palchettista (n° 15, II ordine, settore sinistro) e sorella di Vitaliano Bigli, uno dei tre Consiglieri Delegati che per conto della Società dei palchettisti seguirono i lavori di costruzione del Teatro alla Scala, titolare di palchi nei prestigiosi I e II ordine.
Con l’arrivo dei francesi a Milano nel maggio 1796, mentre il palco n° 18 del I ordine rimase agli eredi di Tiberio Crivelli, quello del IV ordine ebbe due nuovi proprietari: Giacomo Pinchetti e Francesco Predabissi (1768-1834), che si alternavano nei giorni dispari il primo, nei giorni pari il secondo. Pinchetti, di famiglia borghese, geografo e capo disegnatore dell’Ufficio del Censo (il catasto), diede alle stampe nel 1801 la prima pianta di Milano, estremamente precisa e accurata nella rappresentazione degli isolati e dei singoli edifici per la certa derivazione dalle coeve elaborazioni catastali, condotte dallo stesso autore. La sua attività continuò anche dopo il rientro degli austriaci: nel 1831 pubblicò la preziosa Carta geografica e postale del Regno Lombardo-Veneto. Francesco Predabissi, avvocato, nobile, signore di Vizzolo e Calvenzano podestà di Vimercate durante la Repubblica Cisalpina, Giudice di Cassazione sotto il Regno Napoleonico fu Consigliere di Stato dell’amministrazione austriaca, benefattore con un legato di 100.000 lire dell’Ospedale Maggiore, che ne conserva un ritratto in veste di magistrato; una lapide sulla facciata della chiesa di Santo Stefano a Milano nell’omonima piazza lo ricorda inoltre per aver istituto per testamento una singolare Opera Pia: l’assegnazione di un premio in denaro “ai domestici che avessero prestato fedele assistenza ad un unico datore di lavoro, onde promuovere la moralità delle persone di servizio”.
Nel 1818, dopo il ritorno degli austriaci, a Pinchetti subentrò nella proprietà condivisa con i Predabissi il barone Antonio Smancini, (1766-1831) avvocato a Cremona appartenente alla loggia massonica “giuseppina” che con l’arrivo dei francesi si era dato alla vita politica, ricoprendo diverse cariche fino ad essere chiamato a far parte della Consulta legislativa della seconda Repubblica Cisalpina, nel 1800, per poi diventare ministro della polizia e della giustizia; nonostante ai Comizi di Lione si fosse opposto alla nomina di Napoleone a presidente della Repubblica Italiana, nel 1807 divenne Consigliere di Stato e nel 1809 prefetto dell’Adige, per poi essere creato barone nel 1812. Amico di Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, con il ritorno degli austriaci si ritirò a vita privata a Milano.
La nobildonna Sofia Predabissi (1812-1871), figlia di Francesco, sposata con il dottore Carlo Alfieri, nel 1836 ereditò dal padre la metà del palco ma divenne intestataria anche dell’altra metà che probabilmente acquisì da don Francesco Smancini dopo la morte del barone Antonio. Come è frequente nelle famiglie nobili e altoborghesi, donna Sofia e il marito si dedicarono ad opere di beneficenza e di solidarietà sociale: “Protettori e Protettrici del Pio Istituto di mutuo soccorso fra i Maestri e le Maestre della Lombardia”, fondato nel 1857, Patroni il duca Raimondo Visconti di Modrone, il duca Lodovico Melzi d’Eril, il conte Balzarino Litta-Biumi, il cavaliere Cesare Cantù; “Azionisti sejennali paganti (Lire 86) per concorrere all’educazione dei sordo-muti poveri della Provincia di Milano”; sottoscrittori del monumento al grecista Felice Bellotti (1860) e di quello allo scrittore Tommaso Grossi promosso da Alessandro Manzoni “per rendere testimonianza di devozione a Tommaso Grossi, il quale con le sue opere ha tanto onorato il nostro paese”. La nobildonna Sofia, alla sua morte, lasciò in dono il suo patrimonio al Comune di Vizzolo per la fondazione di un ospedale. Il 26 luglio 1863 aveva ottenuto per decreto di far aggiungere al toponimo locale il proprio cognome.
Dal 1872 il palco è di proprietà del commerciante milanese Giuseppe Bertarelli (1804-1875), che dalla moglie Giovanna Rotondi, originaria di Galbiate, ebbe sette figli, cinque maschi (Tomaso, Luigi, Martino, Ambrogio, Enrico) e due femmine (Caterina e Annetta Vincenzina). Il Foglio Commerciale di Milano del 5 gennaio 1838 riporta la notizia che Giuseppe Bertarelli ha costituito una “società in accomandita pel commercio di coloniali e relativi, e fabbrica di candele di cera” sita in Contrada di Santa Maria Segreta 2440 e Borgo di Porta Comasina 2129. Nel 1874 acquistò una preziosa villa del Settecento a Galbiate, attestata nel catasto teresiano fin dal 1721, appartenuta alla famiglia Gariboldi, proprietaria terriera di Galbiate, quindi a Giuseppe Villa, il cui figlio, Luigi, fu ministro degli Interni della Repubblica Italiana e del Regno Italico. Nel 1799 la villa fu venduta al banchiere milanese Pietro Ballabio, titolare della Ballabio Fratelli & Besana, forse il primo istituto di credito cittadino a cavallo fra Sette e Ottocento; da lui l’acquistò Giuseppe Bertarelli.
I cinque figli, che divennero proprietari della Ditta Figli di Giuseppe Bertarelli e del palco con la morte del padre, furono protagonisti della vita milanese del tempo, che alternava imprenditoria, filantropia, curiosità verso mondi nuovi e nuove vie commerciali. Tomaso Bertarelli (1837-1924), commendatore e quindi, dal 1914, Grande ufficiale, membro del Consiglio di Reggenza della Banca d’Italia (1879-1894), presidente del Consiglio d’amministrazione della Banca d’Italia (1898-1900), nel 1915 fondò l’Officina nazionale per le protesi dei mutilati di guerra e beneficò la sezione foto-radioterapica dell’Ospedale maggiore pochi mesi prima della morte, seguendo l’esempio dei fratelli Luigi e Ambrogio. Luigi Bertarelli (1846-1928), è elencato fra i benefattori dell’Ospedale Maggiore; sindaco di Galbiate nel 1921-1922, vi promosse il monumento ai caduti. Ambrogio Bertarelli (1849-1936), medico dermatologo, successe a Carlo Forlanini nel 1885 come primario specialista dermosifilografo dell’Ospedale Maggiore. A lui si deve la Clinica dermatologica di via Pace e il suo ritratto, come quello di Tomaso e Luigi, è conservato nella quadreria dell’Ospedale. Enrico Bertarelli (1856-1913) con il fratello Martino lavora per l’incremento dei rapporti industriali e commerciali fra l’Italia e l’America del Sud. Viaggiatore instancabile - si ricorda nel necrologio su La Rassegna Nazionale - in India, a Ceylon, nell’Asia russa, nello Yemen, a Giava, in Giappone, in Cina lasciò articoli e libri a testimoniare le sue avventure. Martino Bertarelli (?-1900), chimico, dal 1887 al 1890 fu vicepresidente della Società d’esplorazione in Africa e consigliere del suo periodico ufficiale, L’Esplorazione commerciale fondato da Manfredo Camperio, proprietario del palco n° 16 del III ordine, settore destro. La famiglia Bertarelli è ricordata fra le benemerite di Galbiate per aver messo a disposizione il terreno e contribuito in modo determinante alla costruzione dell’Asilo Infantile opera dell’ing. Santamaria inaugurato il 16 ottobre 1909, che dal 1931 portò l’intitolazione a Giovanna e Giuseppe Bertarelli. Il palco rimase intestato a Tomaso e fratelli sino al 1920, anno in cui il Comune iniziò l´esproprio dei palchi e si costituì l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 16, IV ordine, settore sinistro

Un palco e due famiglie: Cornaggia Medici e Gavazzi
Due sole famiglie si succedono nella proprietà di questo palco, i nobili Cornaggia Medici per i primi 80 anni e i borghesi “imprenditori” Gavazzi dal 1863 al 1920. Molti palchi del IV ordine costituiscono il secondo o il terzo - in qualche caso, perfino il quarto - palco di proprietà, una sorta di “riserva” per ospitare parenti, amici, o conoscenti illustri da parte di chi possedeva uno o più palchi nei più esclusivi I e II ordine. È questo il caso del marchese Marco Corneggia Medici <1.> (1729-1791), che la sera del 3 agosto 1778 assisteva all’apertura del Teatro alla Scala dal suo palco nel I ordine (n° 11, settore destro) e al tempo stesso poteva generosamente avere altri ospiti nel n° 16 del IV ordine, settore sinistro. Marco è il figlio di Carlo Cornaggia e Vittoria Medici, di antica famiglia patrizia, già palchettista del Teatro Ducale andato distrutto da un incendio nel 1776. Appartenente all’élite filoasburgica, ricopre incarichi pubblici a Milano come Segretario della Cancelleria Segreta austriaca di Lombardia e Consigliere Onorario nel Supremo Consiglio dell’Economia.
Il figlio, Carlo Cristoforo (1774-1847), che ereditò dal padre il feudo della Castellanza (Varese) e i due palchi alla Scala, fu dal 1834 consigliere comunale di Milano. Nel 1797 aveva sposato Donna Teresa Sannazzaro (1780-1822), la quale morì precocemente dopo aver dato alla luce quindici figli.
Nel 1856, dopo l’interruzione delle fonti negli anni seguiti ai drammatici eventi delle Cinque Giornate (1849-1855), ritroviamo proprietario del palco il terzo figlio di questa numerosa prole - Marco <2.> (1801-1867), erede del titolo marchionale e che, come i suoi avi, detenne molte cariche pubbliche e amministrative: per citarne solo alcune è presidente del Consorzio del Fiume Olona e amministratore del Civico Collegio Calchi Taeggi, in Porta Vigentina a Milano, sede oggi dell’Auditorium Lattuada. Con Donna Teresa, che oltre a far figli era impegnata come benefattrice, fu tra i fondatori dell’Ospedale di Merate.
Stupiscono le molteplici attività del palchettista e forse è per questo eccesso di impegni che qualche anno prima della sua morte nel 1863 subentra nella proprietà del palco Antonio Gavazzi <1.> (1815-1885), appartenente al ramo di Canzo (l’altro è di Valmadrera) di una famiglia imprenditrice nel settore serico, in forte sviluppo nel XIX secolo nelle province di Como e Varese. Dal 1873 al 1877 il palco è condiviso col fratello ingegnere Egidio (1818-1877) per restare solo ad Antonio <1.> sino al 1885 in seguito alla scomparsa di Egidio. Un altro fratello, Pietro (1803-1875), banchiere e imprenditore, aveva fondato con loro nel 1844 il setificio Pietro Gavazzi e F.lli che venne successivamente amministrato dai suoi figli. Oltre a dedicarsi alle attività bancarie (nel 1872 partecipò alla fondazione del Banco seta lombardo), Pietro fu consigliere comunale di Milano, inaugurando quell’impegno in campo amministrativo e politico che divenne una costante della tradizione di famiglia. Il figlio Pio infatti divenne sindaco di Desio, dove nel 1869 fu costruito il nuovo stabilimento per la produzione di filati di seta. Intorno alla metà dell’Ottocento l’azienda dei Gavazzi era considerata la più importante in Italia tra le manifatture seriche e dava luogo a un’ingente esportazione in tutta l’Europa e anche negli Stati Uniti. Eredi del palco (atto notarile del marzo 1887) sono i dunque i figli di Pietro Egidio Luigi (1846-1910) e Pio Gavazzi (1848-1927), entrambi laureati in ingegneria al Politecnico di Milano.
Alla morte di Egidio Luigi nel 1910, l’azienda fu gestita da Pio e dal figlio di quest’ultimo Antonio <2.> (1875-1948), palchettista dal 1902 al 1905. Il palco invece rimase saldamente nelle mani del cavaliere commendatore Pio dal 1906 sino al 1920, quando il Comune di Milano espropriò i palchi ponendo fine alla proprietà privata degli stessi.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 17, IV ordine, settore sinistro

Il palco del “sur avvocatt” Giuseppe Antonio Martinelli
Il primo proprietario di questo palco appartiene ad una delle famiglie più influenti e facoltose sulla scena milanese del ‘700, il marchese Pompeo Litta Visconti Arese (1727-1797), Real Ciambellano e Consigliere Intimo di Stato. Lo acquistò all´asta del 30 marzo 1778 per 7.100 Lire austriache e lo tenne sino alla morte: molto probabilmente per lo utilizzò per i suoi ospiti o per affittarlo, se si considera che il marchese detenne la proprietà, insieme alla moglie Elisabetta Visconti Borromeo (1730-1794) anche del palco di proscenio e dei palchi n° 1, n° 2, n° 3 del I ordine sinistro durante lo stesso periodo, così come era già stato proprietario degli stessi palchi nel Regio Ducal Teatro.
Il marchese Pompeo Litta ebbe un ruolo importante nelle trattative per la costruzione del Teatro alla Scala che doveva sorgere in sostituzione del Teatro Ducale distrutto dal fuoco nel febbraio 1776. L’assemblea generale del Corpo dei Palchettisti si assunse l’onere finanziario della ricostruzione, mentre dove e come costruire il teatro dovette essere concordato con il Governatore della Lombardia asburgica, l’arciduca Ferdinando, il Cancelliere di S. M. I. Maria Teresa d’Austria, principe Anton von Kaunitz, i Cavalieri Delegati, eletti fra i proprietari dei palchi, nonché il progettista, il regio architetto Giuseppe Piermarini che svolse anche il ruolo di direttore dei lavori. Il marchese Pompeo fu uno dei tre Cavalieri Delegati insieme al conte Vitaliano Bigli e al duca Giovanni Serbelloni. Furono inoltre eletti nove Consiglieri Delegati che unitamente ai Cavalieri ebbero piena facoltà di trattare e decidere a nome di tutti i palchettisti.
Dal 1809 al 1817 risulta proprietario l’avvocato Giuseppe Antonio Martinelli (1753-1817) discendente da una famiglia di Ghirone, in val di Blenio, nel Canton Ticino; il padre, Giorgio Maria Martinelli, era stato fondatore del Collegio di Rho. Giuseppe Antonio aveva fatto fortuna a Milano, dove godeva “di molta riputazione per la probità e prudenza non meno che per la dottrina legale” e dove aveva difeso Pietro Verri nella causa per la divisione dell’eredità familiare. Il lavoro più prestigioso dell’avvocato a Milano fu però quello di procuratore di casa Litta, che Martinelli tenne per 32 anni fino a stilare, nel 1815, un Testamento politico-economico … che potrà servire di norma per il futuro regime dell’amministrazione interna, ed esterna del patrimonio Litta Visconti Arese. L’amico Carlo Porta dedicò “Al sur avvocatt Giusepp’Antoni Martinell” una satirica ma bonaria poesia sull’aggiustamento dei conti. Dal 1818 al 1920 si avvicenderanno nel palco molti proprietari, tutti legati per discendenza o per parentela acquisita all’avvocato Martinelli e in gran parte esponenti della borghesia delle professioni liberali.
Dal 1818 al 1836 il palco è degli eredi Martinelli per passare poi a Casa Marani, la casa di Antonio Maria Marani (1760-1837), ragioniere e nipote di Luigi, utente del palco n° 9 del IV ordine sinistro in epoca napoleonica. Il rag. Marani era probabilmente legato per motivi professionali all´avvocato Martinelli.
Infatti, dal 1839 al 1848 proprietaria del palco è Carolina Bertrand Marani, vedova di Antonio Maria dal quale ebbe tre figli: Luigi (1804-1838) “giovane amabilissimo e rispettoso”, come si legge dalla sua lapide, e che morirà celibe, Giuseppe e Giovanni, futuro palchettista dal 1856 al 1860. Giovanni Marani (1808-1881), residente in Piazza S. Alessandro, componente della Commissione di Vigilanza per il Debito Pubblico del Ministero delle Finanze, è un esempio della borghesia impegnata nel sociale: fondatore della Società Italiana di Scienze Naturali, socio promotore della Società d’Incoraggiamento delle Arti e dei Mestieri, avviò corsi di formazione e aprì la Scuola di chimica industriale con la finalità di formare nuove leve capaci di gestire i più moderni processi produttivi. Da qui nascerà nel 1863 il Politecnico di Milano. Marani fu anche un appassionato collezionista; nel 1871 donò alla Biblioteca Ambrosiana due sculture in avorio rivestite in legno a intaglio raffiguranti dei mendicanti, attribuite allo scultore e intagliatore bellunese Andrea Brustolon (1662-1739).
Dal 1861 al 1883 saranno proprietari, come è documentato nella denuncia di successione conservata presso l’Archivio di Stato, Francesco Marani (?-1883) e la moglie Francesca, nota benefattrice. Il palco passa quindi dal 1884 al 1907 ai coniugi Antonietta Marani e Alessandro Barbavara dei Conti di Gravellona, presenti in iniziative e associazioni benefiche della città: Antonietta, membro del Comitato d’Amministrazione dell’Opera Pia Gerli Piccoli, ente morale in memoria di Carolina Gerli fondato nel 1863; il conte, come già Giovanni Marani, socio promotore della Società di Incoraggiamento Arti e Mestieri.
Dal 1917 al 1920 ultimo proprietario è l’avvocato conte Giovanni Barbavara (1871-1931). Membro della Società di Beneficienza Congregazione di Carità e Presidente della Società Lombarda per la Pesca e l’Acquicoltura, fu proprietario di terreni presso Montorfano in provincia di Como comprendenti un bellissimo lago di oltre 1000 metri quadrati di superficie. Pensò di utilizzare in modo razionale la produzione invernale di ghiaccio che si formava nel lago e divenne il fornitore di ghiaccio degli ospedali milanesi. Con lui si conclude la proprietà privata dei palchi che vennero espropriati dal Comune di Milano; al 1920 risale l’istituzione dell’Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 19, IV ordine, settore sinistro

Il palco dei Fè
Pietro Marliani, i fratelli Fè e Pietro Nosetti furono i costruttori del Teatro alla Scala (e della Canobbiana) edificato nel 1778 su progetto del regio architetto Giuseppe Piermarini dopo che un incendio aveva distrutto due anni prima il Teatro Ducale. All’apertura del nuovo teatro Pietro Marliani risulta proprietario di tre palchi: n° 16, III ordine, settore sinistro; n° 19 e n° 20, IV ordine, settore sinistro, ricevuti come parziale pagamento dei lavori per la costruzione del Teatro. Pietro Marliani, ex-fermiere generale, cioè esattore delle tasse, aveva accumulato al tempo di Maria Teresa una cospicua fortuna con questa attività e l’aveva investita nel settore delle costruzioni, in società con imprenditori edili “puri” come il milanese Pietro Nosetti e i fratelli ticinesi Giuseppe e Antonio Fè.
Dal 1790 il palco passa al socio, Giuseppe Fè (1741-1807). I Fè sono una famiglia di origine ticinese attiva a Milano dalla fine del Seicento nel settore edile. Giuseppe è nipote di Alberto, capomastro al restauro della cupola della Basilica di Sant’Ambrogio e figlio di Carlo Francesco segnalato per la ricostruzione della chiesa di San Francesco Grande, il più grande edificio di culto dopo il Duomo, demolito nel 1806, famoso per avere ospitato La Vergine delle rocce di Leonardo, oggi alla National Gallery di Londra.
L’impresa dei Fè ottiene nel corso del Settecento l´appalto di opere pubbliche importanti, fra le altre la costruzione del naviglio di Paderno d’Adda. Ma l’opera che dà loro più prestigio e li consacra al vertice degli imprenditori edili di Milano è l’appalto per la costruzione dei teatri alla Scala e della Canobbiana in società con Pietro Nosetti e Pietro Marliani. Il legame di Giuseppe Fè con il regio architetto Piermarini, progettista dei due teatri, gli aprì la strada ad un rapporto privilegiato con l’Arciduca Ferdinando d’Austria, governatore di Milano, che lo favorì nell’aggiudicazione di numerosi appalti di opere pubbliche e nel giro di pochi decenni Giuseppe Fè costruì un piccolo impero, estendendo l’attività da quella edile al prestito e alle operazioni finanziarie, assicurando alla sua discendenza un patrimonio ragguardevole. Inoltre l’ammissione del nipote Giovanni Battista (1795) al collegio degli ingegneri milanesi è indicativa della posizione sociale raggiunta dalla famiglia.
Alla morte di Giuseppe Fè subentrano come eredi e proprietari del palco i nipoti Carlo, Giovanni Battista e Alberto. Giovanni Battista, ingegnere, assume le redini dell’impresa di famiglia affermandosi nella nuova realtà politica del periodo napoleonico. Carlo dal 1834 al 1837 rimane l’unico proprietario del palco che viene ereditato dai figli Alberto, Emilia e Virginia.
Quest’ultima sposa nel 1855 il notaio Francesco Triaca (1803-1865), portando in dote un terzo del palco, ma rimane dal 1880 unica proprietaria per la morte dei fratelli e del marito. Il palco passa quindi, per asse ereditario, al figlio Pier Alberto nel 1903, alla sua vedova Emilia nel 1907 e infine nel 1917 al nipote Felice Triaca. Dai documenti riguardanti la famiglia Fè conservati nel fondo Gacarù dell´archivio NoMus di Milano emerge che dal 1857 le sorelle Virginia ed Emilia affittavano regolarmente il palco per l’intero anno o solo per la stagione di Carnevale-Quaresima, riservandosi solo alcune serate di loro interesse, una prassi comune nella seconda metà dell’Ottocento. Il canone d’affitto variava da 900 a 1.350 Lire per l’anno intero, e da 530 a 800 Lire per la stagione Carnevale-Quaresima. La proprietà privata del palco ha termine nel 1920 con la cessione dei palchi al Comune e l´istituzione dell´Ente Autonomo Teatro alla Scala.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 20, IV ordine, settore sinistro

Un palco borghese
Pietro Marliani, i fratelli Fè e Pietro Nosetti furono i tre costruttori del Teatro alla Scala (e della Canobbiana), edificato nel 1778 su progetto del regio architetto Giuseppe Piermarini dopo che un incendio aveva distrutto due anni prima il Teatro Ducale. All’apertura del nuovo Teatro, Marliani risulta proprietario di tre palchi: n° 16, III ordine, settore sinistro; n° 19 e n° 20, IV ordine, settore sinistro, ricevuti come parziale pagamento dei lavori per la costruzione del Teatro. Pietro Marliani, ex-fermiere, cioè esattore delle tasse, aveva accumulato una cospicua fortuna con questa attività e l’aveva investita nel settore delle costruzioni, in società con imprenditori edili “puri” come il milanese Pietro Nosetti e i fratelli ticinesi Giuseppe e Antonio Fè.
Nel 1790 il palco passa al figlio Rocco Marliani (1752-1826), persona in vista a Milano durante il ventennio francese: avvocato, principe del foro, giudice e senatore del Regno d’Italia. Sposato con Amalia Masera, nel 1799 aveva acquistato a Erba l’ex convento di Santa Maria degli Angeli, poi trasformato dall’architetto Leopold Pollack in una sontuosa “villa di delizie”. Qui e nei palchi di famiglia alla Scala ha ospiti illustri come il pittore Appiani, lo scultore Canova, scrittori e poeti come Stendhal, Giuseppe Parini, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo. Quest’ultimo ebbe una relazione sentimentale con la figlia di Rocco, Maddalena, giovane sposa del banchiere Paolo Bignami, celebrata dal Foscolo nel poema Le Grazie. Rocco Marliani ha anche un figlio musicista, Marco Aurelio, cresciuto con sentimenti antiaustriaci, che dopo la morte del padre, venduti in accordo con la sorella i palchi alla Scala, si trasferisce nel 1830 a Parigi. Qui studia con Rossini debuttando al Théâtre des Italiens con il dramma tragico Il Bravo, protagonista il famoso tenore Giovanni Battista Rubini. Ritornato dopo alcuni anni in Italia, Marco Aurelio raccoglie un discreto successo alla Scala nel 1843 con l’opera tragica Ildegonda e il suo nome compare spesso nelle riviste musicali di quegli anni abbinato a BelliniVincenzo Bellini e DonizettiGaetano Donizetti. Prende parte alla prima guerra d’indipendenza e muore nel 1849 per le ferite riportate in battaglia.
L’acquirente del palco, nel 1830, era stato Giuseppe Marietti (1797-1864), banchiere e commerciante di seta che lo tiene sino al 1835: probabilmente per lui è un investimento immobiliare che consente di realizzare un sicuro profitto.
Solo durante il periodo napoleonico, nel 1809 e nel 1810, il palco rientra in altre disponibilità: nel 1809 risulta Affittato ad una Società, nel 1810 compaiono nelle fonti due nomi, quello di Giovanni Villata, generale nelle truppe francesi e poi austriache e di Carlo Bignami, banchiere nonché consuocero di Rocco Marliani.
Dal 1836 proprietaria del palco risulta Francesca Majnoni d’Intignano (1791-1882), vedova di suo cugino Stefano Bernardo Majnoni d’Intignano. Stefano, consigliere aulico dell’imperatore Francesco I d’Austria, era stato al servizio dell’amministrazione austriaca - direttore della Fabbrica di Tabacchi - mentre il fratello Giuseppe Antonio militava nelle file napoleoniche raggiungendo il grado di generale distinguendosi nelle battaglie contro gli austriaci. La casa milanese dei Majnoni, in piazza Santa Marta e poi in piazza Mentana, ritrovo di scienziati, uomini di stato e artisti, era nota per le collezioni di archeologia e numismatica e per la pregevole pinacoteca. Morto precocemente Stefano nel 1826, Francesca continuò la tradizione del salotto artistico-culturale, annoverando tra gli ospiti più assidui il pittore Francesco Hayez che nel 1829 le fece un ritratto oggi nella collezione privata di Franco Maria Ricci.
Dal 1856 al 1858 il palco risulta intestato a Massimiliano (1808-1894) e Gerolamo Majnoni (1809-1878), due dei dieci figli di Stefano i quali intrapresero la carriera militare nell’esercito sabaudo e si distinsero per la partecipazione alla seconda e terza guerra d’indipendenza. La scelta della carriera militare comportò probabilmente un allontanamento da Milano e quindi dalla Scala. Questo spiega il cambio di proprietà del palco dopo appena tre anni. I tre personaggi che troviamo nel 1859 come nuovi intestatari alla vigilia dell’Unità d’Italia sono in qualche modo legati fra di loro: Domenico Cagnolati è il titolare del Caffè dei Virtuosi in piazza della Scala dove cinquant’anni prima aveva lavorato come garzone il celebre impresario Domenico Barbaja; Gaspare Antonio Ferrini (1797-1867), farmacista, è il genero di Cagnolati in quanto ne sposa in seconde nozze la figlia EugeniaEugenia Cagnolati; terzo proprietario è Carlo Bosisio, (1806-1886), aiuto custode del Teatro alla Scala, coniugato con Adelaide Superti, ballerina presso lo stesso Teatro.
Dalla fine degli anni Cinquanta sino al 1885 Bosisio risulta proprietario, per periodi di lunghezza diversa, di ben nove palchi, cinque dei quali (i numeri 4, 5, 20, IV ordine sinistro; n° 13, II ordine destro; n° 3, IV ordine, destro) con gli altri due soci o solo con Ferrini; a questi va aggiunto il palco di famiglia (n° 9, IV ordine destro) in comproprietà con la moglie Adelaide Superti (1863-1873) e, ultimo acquisto (1879) il palco n° 18, III ordine destro, con altri soci (Ermenegildo Tagliabue e Giuseppe Malliani).
Ritornando alla storia del nostro palco, nel 1868 con la scomparsa di Ferrini subentra nel possesso di metà palco Ermenegildo Tagliabue, il quale a sua volta rimane proprietario unico dal 1886. Il palco infine passa per eredità al figlio Carlo Tagliabue sino alla cessione dei palchi al Comune nel 1920 e all’istituzione dell’Ente autonomo Teatro alla Scala che segna la fine della proprietà privata dei palchi.
La storia di questo palco ben rappresenta la funzione della proprietà scaligera per molti borghesi emergenti, benestanti e ambiziosi: il palco è insieme uno status symbol e ancor più un investimento immobiliare che garantisce una rendita consistente mediante l’affitto o il sicuro recupero del capitale in caso di vendita. La prassi dell’affitto nella seconda metà dell’Ottocento diventa così frequente e generalizzata che l’Associazione dei palchettisti predispone un modello di contratto standard in modo che le condizioni economiche siano omogenee e si eviti un eccesso di speculazione. Anzi, spesso l’Associazione stessa si fa carico dei palchi disponibili e provvede a subaffittarli o a darli in gestione all’impresario per la vendita serale o l’abbonamento.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 11, I ordine, settore destro

Dai nobili agli industriali
La sera del 3 agosto 1778, all’apertura del Teatro, il palco è occupato da Marco Cornaggia Medici <1.> (1729-1792), figlio di Carlo e Vittoria Medici, marchese di Castellanza, di antica famiglia patrizia milanese, coniugato con Giuseppa Bonanomi (1742-1775), già palchettista del vecchio Teatro Ducale bruciato nel 1776. Marco fu Segretario della Cancelleria Segreta dello Stato di Milano e Consigliere Onorario dell’Imperatrice Maria Teresa nel Supremo Consiglio di Economia Pubblica.
Il figlio, Carlo Cristoforo (1774-1847), che ereditò dal padre il feudo e il palco alla Scala, fu dal 1834 Consigliere Comunale di Milano; nel 1797 aveva sposato donna Teresa Sannazzaro (1780-1822), una delle prime e rare imprenditrici del suo tempo, che fondò a Legnano la prima filatura del cotone; morì precocemente dopo aver dato alla luce quindici figli. Uno di questi, Marco <2.>, lo ritroviamo negli anni Cinquanta come proprietario di un altro palco (n° 16, IV ordine, settore destro).
Durante il periodo napoleonico, nel 1809 utente del palco è la marchesa Angela Spinola e nel 1810 l´avvocato Vincenzo Tosi, funzionario del Regno d´Italia. Nel 1813 ritorna nel palco il precedente proprietario, il marchese Cornaggia Medici, che lo terrà sino al 1848.
Dopo l’interruzione delle fonti negli anni seguiti ai drammatici eventi delle Cinque Giornate di Milano (1849-1855), nel 1856 assistiamo a un cambio non solo nella proprietà ma anche nella rappresentanza sociale: al marchese Carlo Cristoforo succede un esponente dell’emergente nuova borghesia, Pietro Baragiola <1.>, fondatore di una filanda nel 1822, la cui ascesa sociale è confermata dalla Guida di Milano del 1844 dove è citato come «Proprietario dell’I. R. Fabbrica Privilegiata Nazionale di stoffe di seta in Como con deposito a Milano in contrada Filodrammatici 1809». Il “Privilegio” era stato concesso dal governo asburgico qualche anno prima (nel 1842) per avere perfezionato un macchinario per la tessitura della seta.
Nel 1865 il palco passa al figlio Giovanni Baragiola (1832-1884) coniugato con Emma Ronzini, appartenente anch’essa a una famiglia di industriali serici del comasco e quindi ai nipoti, figli del fratello Antonio, Pietro <2.> (1854-1914) e Luigi (1857-1921). Luigi, per alcuni anni rappresentante della ditta di famiglia a Vienna, morì giovane in seguito a un’improvvisa malattia. Pietro, laureato in Scienze agrarie, deputato del Regno eletto nel collego di Erba, diversificò le sue attività economiche: oltre ad amministrare l’azienda di famiglia, investì nella navigazione sul lago di Como, nella modernizzazione dei macchinari industriali ed agricoli, nell’introduzione dell’energia elettrica e negli stabilimenti termali a Montecatini. Mecenate, fu un appassionato sostenitore e collezionista delle opere del pittore milanese Filippo Carcano, allievo di Francesco Hayez all’Accademia di Brera, docente presso la stessa Accademia e considerato il caposcuola del Naturalismo Lombardo.
È l´ultimo proprietario perché nel 1920 si costituisce l´Ente Autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano acquisisce i palchi privati.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 4, II ordine, settore destro

Filoaustriaci e filoverdiani
Al momento dell’inaugurazione del Teatro alla Scala, la potente e nobile famiglia dei Barbiano di Belgiojoso possiede ben tre palchi, due dei quali (n° 16, settore destro e n.° 4, settore destro) negli ordini più prestigiosi (I e II). Il palco n° 4 nel secondo ordine è occupato dal principe Antonio <1.> (1693-1779) e dai suoi due figli Alberico <1.> (1725-1813) e Ludovico (1728-1801), tra i pochi sudditi italiani degli Asburgo a intraprendere la carriera militare raggiungendo i più alti gradi della gerarchia (tutti e tre generali, di cui uno a due stelle) continuando in questo una tradizione di uomini d’arme che risaliva alla dominazione spagnola e più indietro agli Sforza.
Antonio <1.>, sposato con Barbara D’Adda, figlia del conte Costanzo e della contessa Antonietta Aicardi Visconti, già proprietario di un palco nel Teatro Ducale, ne acquista uno analogo nel nuovo Teatro alla Scala. Viene ricompensato per il servizio prestato nella Guerra dei Sette anni con la nomina a Consigliere privato di Maria Teresa, la promozione al rango di Principe e insignito della più alta onorificenza dell’impero, quella di Cavaliere dell’Ordine del Toson d’oro.
Alberico <1.>, suo primogenito, principe di Belgiojoso e Grande di Spagna, beneficia della solida posizione raggiunta dal padre; ha il battesimo del fuoco nella battaglia di Rossbach contro i prussiani e, rientrato a Milano, ottiene l’incarico di comandante degli alabardieri svizzeri a servizio dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo. Nel 1757 sposa la principessa Anna Ricciarda d’Este, e i suoi discendenti aggiunsero al proprio il cognome della madre. Conosce il regio architetto Piermarini e a lui affida il compito di erigere una sontuosa residenza in città, il palazzo Belgiojoso, oggi nell’omonima piazza, di fianco alla casa-museo di Alessandro Manzoni. In seguito alla conquista di Milano da parte di Napoleone nel 1796, Alberico viene arrestato come filo-asburgico, ma presto rilasciato in virtù delle sue relazioni con la corte e da allora visse piuttosto defilato nel castello di Belgiojoso, vicino a Pavia, dove ebbe come ospite l’amico Ugo Foscolo. Uomo raffinato e amante delle arti e della poesia, raccolse una grandiosa biblioteca personale che in seguito venne donata alla Biblioteca Trivulziana di Milano.
Ludovico si arruola anch’egli come molti suoi antenati nell’esercito asburgico, incoraggiato in questo dal padre. Introdotto a corte, apprezzato dal Cancelliere Wenzel von Kaunitz, prosegue il suo servizio sotto gli Asburgo nel corpo diplomatico: ambasciatore a Stoccolma e a Londra, ha come ultimo incarico quello di vice-governatore dei Paesi Bassi dal 1783 al 1787. Giunto alla fine di una lunga carriera, ritorna a vivere a Milano dove erige una residenza principesca, l’attuale Villa Reale, nota come “Villa Belgiojoso-Bonaparte”, residenza milanese di Napoleone e del viceré Eugenio di Beauharnais.
Con la Restaurazione il palco viene acquisito dal conte Saule Alari (1778-1831) la cui famiglia possedeva una delle più prestigiose ville suburbane, a Cernusco sul Naviglio, costruita tra il 1702 e il 1725, e affittata per alcuni anni come residenza estiva all’arciduca Ferdinando d’Asburgo. Alla morte di Saule la famiglia Alari si estinse e il palco rimane di proprietà della moglie, la contessa Marianna San Martino della Motta che sposa in seconde nozze il conte Ercole Visconti di Saliceto acquisendo il cognome del nuovo marito, ma mantenendo tra i suoi beni, sino al 1872, il palco al Teatro alla Scala.
Il proprietario successivo dal 1873 al 1884 è Antonio Gussalli (1806-1884); allievo di Pietro Giordani, letterato di inclinazione classicista, fu una figura di spicco della Milano intellettuale del tempo. Appassionato d’opera e di concerti, grande ammiratore di Rossini, fu tra i soci fondatori, nel 1864, della Società del Quartetto di Milano subito impostasi come luogo d’elezione della cultura musicale milanese. Gussalli, anche in età avanzata (ha quasi 70 anni quando acquista il palco alla Scala), continua a frequentare i teatri e a passare le sue serate nel salotto della contessa Clara Maffei. Alla sua morte il palco rimase alla moglie Costanza Antivari che lo tenne sino al 1888.
Ultimo proprietario, dal 1889 sino al 1920, è il cavaliere Giuseppe Lattuada, ricco possidente che fece parte nel 1880-81, insieme al principe Cesare Castelbarco Albani, ad Amerigo Ponti, a Giuseppe Pisa e a Diego Macchi Nappi, del Comitato Nazionale per le onoranze a Giuseppe Verdi onde favorirne il ritorno alla Scala, che finalmente si realizzò con la prima dell’Otello il 5 febbraio 1887.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 5, II ordine, settore destro

Nobiltà milanese e di origine austriaca
Dal 1778 e per quasi novant’anni (1864) il palco appartiene ai Borromeo Arese. I Borromeo sono una delle più illustri e antiche famiglie patrizie lombarde, che annovera tra gli altri anche due principi della chiesa, i cardinali e arcivescovi di Milano Carlo (1538-1584), protagonista della fase conclusiva del Concilio di Trento ed autore del catechismo tridentino, elevato agli onori dell’altare nel 1610, e Federico (1564-1631), fondatore della Biblioteca Ambrosiana, immortalato da Alessandro Manzoni nel romanzo I promessi sposi. Nel XVII secolo Renato Borromeo, conte di Arona (1618-1685), sposa Giulia Arese (1636-1704) che porta in dote il cospicuo patrimonio paterno e, per contro, il marito aggiunge il cognome della moglie al suo.
Un suo discendente, Renato Borromeo Arese <1.> (1719-1778), VII marchese di Angera e V conte d’Arona, è il primo proprietario di un palco alla Scala; come nel caso di altre eminenti famiglie, i Borromeo possiedono un secondo palco già all’apertura del teatro (n° 17¸ IV ordine, settore destro), al quale se ne aggiunge un terzo dal 1827 (Proscenio, II ordine, settore destro) e un quarto dal 1831 (n° 14, II ordine, settore destro). Renato <1.> assiste solo alla prima stagione del Teatro poiché muore quello stesso anno.
Dal 1779 gli succede il figlio primogenito Giberto <1.>, VIII marchese di Angera (1751-1837), che nel 1790 sposa Elisabetta Cusani Visconti, vedova di suo cugino Antonio. All’arrivo dei Francesi nel 1796, come molti altri nobili filo-asburgici, viene arrestato e imprigionato nella fortezza di Nizza. Liberato l’anno dopo, si riconcilia con la Francia di Napoleone primo console e poi imperatore dei Francesi e Re d’Italia, ricevendo la nomina di Cavaliere della Corona di Ferro.
Durante il regno d’Italia, nel 1809 compare come utente del palco (forse un affittuario) il nome di un “conte di Lumiares”, identificabile con Antonio Valcárcel y Pasqual del Pobil (? -1824), X marchese di Castel Rodrigo, tenente delle guardie reali spagnole, coniugato nel 1803 con Beatrice Orsini. Il padre, Antonio y Pío de Saboya, coniugato con María Tomasa Teresa Pasqual del Pobil y Sannazar, è stato un noto archeologo.
Con la caduta di Napoleone e il ritorno degli austriaci nel 1815, proprietario del palco è di nuovo Giberto <1.>, attivo sulla scena pubblica quale membro della Commissione per la riorganizzazione dei Regi Teatri e direttore del Casino dei nobili. Dal 1819 è designato nei documenti dell’epoca come Maggiordomo maggiore e Gran Cancelliere del Regno Lombardo-veneto; nel 1826, infine, gli viene conferita la più alta onorificenza dell’impero, Cavaliere del Toson d’oro.
Erede del palco dal 1848 è il figlio terzogenito Renato <2.> (1798-1875), ciambellano imperiale e assessore al comune di Milano.
Nel 1865 il palco viene acquistato da Andrea Spech (1792-1870), nobile di origine tedesca, Scudiero imperiale e Cavaliere dell’impero, marito della contessa Francesca Nugent e poi di Costanza Canziani, per oltre trent’anni al servizio degli Asburgo con l’incarico di Intendente di corte. Il palco passa quindi alla figlia Amalia (1825-1906) appassionata studiosa di problemi educativi e pedagogici, animatrice di numerose opere e iniziative assistenziali per l’infanzia povera e abbandonata e per l’alfabetizzazione e la scolarizzazione delle fanciulle e ragazze delle classi popolari. Si interessò inoltre dei bambini ciechi, collaborando alla fondazione e organizzazione dell’asilo infantile per bambini ciechi di Milano, in via Mozart, del quale fu per lunghi anni direttrice e coordinatrice didattica. Nel 1841 Amalia sposò il conte Cristoforo Sola Cabiati, noto bibliofilo e poeta dilettante, ritratto da Francesco Hayez.
Ultimi proprietari del palco sino al 1920 furono due dei tre nipoti di Amalia e Cristoforo, Giovanni Lodovico e Ferdinando Maria figli di Andrea Sola Cabiati (1844-1908), senatore del regno d’Italia e di Antonietta Busca Arconati Visconti (1853-1917), unica erede per parte paterna del patrimonio dei Serbelloni. Dei tre fratelli, solo Gian Lodovico (1877-1972) ebbe una discendenza; sposò la marchesa Alberica Stanga Trecco (1877-1968) dalla quale ebbe quattro figlie: Amalia, Eleonora, Andreina e Antonietta. Amalia sposò il conte Gola, Antonietta il marchese Lalatta: queste due famiglie rappresentano oggi la discendenza diretta dei Serbelloni e sono gli attuali proprietari dello splendido palazzo Serbelloni in corso Venezia a Milano e della Villa Sola Cabiati a Tremezzo sul lago di Como.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 9, II ordine, settore destro

I tanti rami della famiglia Oltrocchi
Primo proprietario del palco, dal 1778 al 1783 è il marchese Paolo Antonio Menafoglio (1728-1780), illuminista e membro dell’Accademia dei Pugni, figlio del più famoso omonimo Paolo Antonio (1700-1768), ricco banchiere, residente a Milano, tesoriere dello Stato e appaltatore della riscossione delle imposte nel ducato di Modena, il quale aveva fatto costruire a Biumo Superiore una “villa di delizia”. La villa, oggetto di dispute ereditarie, fu acquistata nel 1823 da Pompeo Litta Visconti Arese che affidò il compito di ristrutturarla e ampliarla all’architetto Luigi Canonica. Nel 1935 ebbe un nuovo proprietario, il conte Ernesto Panza di Biumo e quindi passò, per eredità nel 1956, al figlio Giuseppe che ne fece la sua residenza abituale. Giuseppe Panza, grande appassionato d’arte contemporanea, la trasformò nella sede della sua collezione d’arte americana della seconda metà del XX secolo e infine nel 2001 la donò al FAI.
Secondo proprietario del palco dal 1783 fu Carlo Francesco Albani (1749-1817) principe di Soriano nel Cimino, esponente della nobiltà papalina romana, ben inserito anche nei circoli aristocratici milanesi attraverso un’accorta politica matrimoniale inaugurata già dal nonno paterno, Gerolamo, che aveva sposato la marchesa Teresa Borromeo Arese. Albani convola a nozze nel 1783 con la contessa Teresa Casati (1770-1824), dalla quale ha tre figlie che sposeranno tre rappresentanti dell’élite aristocratica milanese: Antonia, il conte Carlo Litta di Castelbarco; Elena, il duca Pompeo Litta Visconti Arese; Beatrice, il marchese Luigi Vitaliano Paolucci, la cui madre a sua volta è una Borromeo Arese (Maddalena).
Durante il periodo napoleonico è registrato come utente del palco l’avvocato penalista Giuseppe Marocco (1773-1829), figlio di un orefice, all’epoca indiscusso principe del foro milanese, nominato dal viceré Eugenio di Beauharnais avvocato presso il Consiglio di Stato di Milano, il Consiglio dei titoli, la Corte di Cassazione e il Ministero della Giustizia; uomo di vasta cultura, filosofo del diritto e amante delle arti, fu tra gli estensori del Codice penale ticinese del 1816. Membro dell’Accademia dei Trasformati, fondò egli stesso una famosa accademia oratoria, ma non esitò ad abbandonare platealmente la professione in aspra polemica con il governo austriaco che aveva imposto una legislazione che mortificava i diritti della difesa.
Con le prime sconfitte di Napoleone, nel 1813 troviamo un nuovo proprietario in don Carlo Costa, coniugato con Marianna Oltrocchi, che però muore il 5 maggio dello stesso anno non lasciando eredi maggiorenni, poiché l’unica figlia, Ne, era morta prima del 1813. Solo nel 1821 la nipote Luigia Ferrari Oltrocchi (1796-1854) riesce a prenderne possesso, condividendone la proprietà per alcuni anni con i cugini di secondo grado Ignazio (1763-1832) e Carlo Giuseppe Crotti Oltrocchi, figli della prozia Adelaide Oltrocchi (1735-1810) sorella di Marianna. Luigia nel 1811 aveva sposato il conte Giuseppe Cassera (1784-1813) da cui aveva avuto Angiola e Giuseppe <2.> - che ereditarono dal padre il palco n° 12 del I ordine sinistro - e si sarebbe risposata nel 1822 con il conte Francesco Borgia (1794-1861) da cui avrà due figli, Alcmena e Cesare. Luigia detta l’iscrizione posta sul monumento funebre del nonno Carlo Costa: “sia eterno il riposo / al probo uomo Carlo Costa / caro e grato alla patria / morto alli V maggio / l’anno MDCCCXIII / al desiderato padre / della pianta genitrice / Luigia Cassera Ferrari Oltroccii / dedica questo monumento / di riconoscenza ed amore”.
Luigia fu amica intima di Stendhal, conosciuto durante il secondo soggiorno milanese dello scrittore (1814-1821), il quale nei Ricordi d’egotismo (1832) racconta come, innamorato non corrisposto di Metilde Viscontini Dembowski, finisse le serate “dall’affascinante e divina contessa Cassera… E per un’altra sciocchezza, una volta ho rifiutato di diventare l’amante di questa donna, la donna più adorabile forse che abbia conosciuto”.
Il palco è proprietà della stessa famiglia per cinque generazioni: della contessa Luigia sino al 1864 e dal 1865 del figlio, Cesare Borgia (1830-1907?) coniugato con Clementina Tarantola, quindi del nipote Francesco Borgia (1863-1924), sposato con la marchesa Eugenia Litta Modignani, che lo detiene, insieme al palco n° 10 del IV ordine sinistro ereditato dalla madre, fino al 1920, anno in cui i palchi vengono ceduti al Comune di Milano decretando, con la costituzione dell’Ente Autonomo Teatro alla Scala, la fine della proprietà privata.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 15, III ordine, settore destro

Nessun nobile in questo palco
Per oltre 60 anni - fatta eccezione per gli anni del periodo napoleonico dove la gestione passa al caffettiere Giuseppe Antonio Borrani - dal 1778 al 1839 il palco appartenne a Fortunato Lampugnani (1748-1834), figlio di Antonio e Antonia Martinazzi e ai suoi eredi. Si hanno poche notizie di questo personaggio: fu un benefattore dell’Ospedale Maggiore di Milano al quale, in forza del legato da lui disposto dei beni di Lugagnano pervennero 63.894 Lire austriache, su un patrimonio lasciato ai nipoti di 360.000 Lire. Come era frequente per i benefattori, nella quadreria dell’Ospedale abbiamo un ritratto opera del pittore milanese Pietro Narducci (1793-1880), eseguito nel 1839 per 800 Lire austriache.
Dal 1840 al 1860 il proprietario è Gian Battista Gavazzi (1796-1864) appartenente al ramo di Canzo (l’altro più noto è quello di Valmadrera) di una facoltosa famiglia di imprenditori serici, settore in forte sviluppo tra il 1830 e il 1850 nelle province di Como e di Varese: tra i nomi emergenti oltre ai Gavazzi troviamo Francesco Riva, Pietro Baragiola, Andrea Ponti, Giovanni Braghenti, Giuseppe Mondelli, Rezzonico e Perlasca, Carlo Verza, Emilio ed Ernesto Prato. Una dimora prestigiosa, un palco alla Scala e un matrimonio con una fanciulla di nobile lignaggio o frutto di alleanze dinastiche tra “borghesi” che accrescesse il patrimonio della famiglia segnano il coronamento di un’ascesa sociale oltre che economica. Gian Battista eredita dal padre una bella villa a San Pietro all’Olmo, che prospetta sulla piazza principale del paese, dove la famiglia ha delle filande; nel 1838 fa costruire un elegante palazzo in via Montenapoleone 23, oggi di proprietà degli eredi e discendenti dei Gavazzi, i Balossi Restelli, tipico esempio di architettura civile neoclassica del periodo della Restaurazione. Il Palazzo Gavazzi viene spesso ricordato nei libri di argomento milanese perché fu abitata da Carlo Cattaneo: al Museo del Risorgimento di Milano è conservato il contratto di locazione con il quale Gian Battista nel 1843 affittava al Cattaneo, suo grande amico, un’ala del Palazzo di famiglia.
Nel 1830 sposa la cugina, Emilia Venanzia Gavazzi, figlia del fratello del padre, perché la famiglia potesse mantenere integro il patrimonio. La coppia Gavazzi-Gavazzi andò ad abitare nel palazzo di contrada del Monte 1265, oggi palazzo Balossi-Gavazzi-Restelli, che divenne il simbolo della concreta e stabile ricchezza raggiunta dalla famiglia. Nel 1864, alla morte del marito, Emilia eredita anche il palco alla Scala e finalmente, nel 1873 riesce a sposare il suo antico amante Francesco de Spech, nobile milanese di origini austro-ungariche dal quale aveva avuto un figlio, Giovanni (1845-1887), che figurava ufficialmente come frutto del suo matrimonio con il cugino Gian Battista Gavazzi.
Giovanni viene quindi adottato dal secondo marito della madre e da quel momento si chiamerà Giovanni Gavazzi Spech, e nel 1886 subentrerà alla madre nella proprietà del palco, ma morirà l’anno dopo, ad appena 42 anni. Giovanni è un personaggio in vista a Milano: socio del circolo dell’Unione (circolo dei Nobii), imparentato da parte del padre naturale con il conte Visconti Pirovano, mentre sua moglie Giulia Restelli, che compare come erede nel palco, era figlia del senatore Francesco e nipote, per parte di madre, del senatore Giuseppe Robecchi.
Nel 1898 il palco viene ceduto a Carlo Simonetta, chimico, esperto in concimi agricoli, cinofilo e appassionato di cavalli, probabilmente figlio di Carlo Leopoldo Simonetta, a sua volta scienziato e socio della Società di incoraggiamento di arti e mestieri oltre che membro della Camera di Commercio sotto il Regno austriaco, protagonista delle riunioni della Società degli scienziati italiani.
Le due figlie di Carlo, Leopolda ed Elisa Simonetta furono le ultime proprietarie, finché, nel 1920, si costituì l´Ente Autonomo Teatro alla Scala e i palchi furono acquisiti dal Comune di Milano.
(Antonio Schilirò)
 
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Palco n° 16, III ordine, settore destro

Il palco Camperio
Primo proprietario risulta il conte Ambrogio Cavenago (1732-1802), esponente di una delle famiglie patrizie più facoltose di Milano, intestatario anche di un secondo palco nel IV ordine (n° 6, settore sinistro). Ambizioso e devoto alla Casa d’Asburgo, aveva incrementato la proprietà feudale nella contea di Trezzo ed era divenuto Ciambellano Reale, oltre che uno dei LX Decurioni di Milano nel 1759, il più importante organo rappresentativo della città. Di conseguenza ebbe poca fortuna con l’arrivo dell’Armée d’Italie guidata dal giovane generale Bonaparte, anzi la nuova amministrazione francese gli chiese addirittura un risarcimento per i danni provocati dall’armata austro-russa sui suoi possedimenti trezzesi, un giro di parole che si traduceva in realtà in un prelievo forzoso per approvvigionare le truppe francesi. E così durante la parentesi napoleonica, il conte Ambrogio - come tanti altri - perse pure il proprio spazio alla Scala e il palco venne affidato ad una personalità più gradita al nuovo regime politico.
Dal 1809, in piena era napoleonica, e per più di un secolo, il palco appartiene ininterrottamente per quattro generazioni ai Camperio, famiglia della borghesia agraria originaria di Binasco, in provincia di Pavia, con numerosi terreni nel lodigiano. Solo il primo anno la proprietà del palco viene condivisa con un nobile, il marchese Benigno Bossi (1788-1870). Questi, patriota, carbonaro, condannato dagli austriaci a morte in contumacia fu costretto a vivere in esilio a Parigi e probabilmente per questa ragione vedette o cedette la sua parte di palco a Giovanni Battista Camperio (? - 1848), il primo della sua dinastia a possedere un palco alla Scala.
Nel 1849 subentra per eredità nella proprietà del palco il figlio Carlo Camperio (1783-1860), laureato in legge, che però non esercitò mai la professione forense, dedicandosi ad amministrare il suo patrimonio accrescendolo considerevolmente quando, nel 1808, convolò a nozze con la giovanissima e ricchissima Francesca Ciani (1791-1886), figlia del banchiere di origine ticinese Carlo che aveva fatto fortuna a Milano durante l’epoca napoleonica. Due dei fratelli di Francesca, Giacomo e Filippo furono grandi patrioti risorgimentali, esiliati in seguito ai moti del 1821 e stabilitisi a Lugano, dove trascorsero quasi tutta la vita e dove conobbero e sostennero Giuseppe Mazzini e gli altri esuli italiani. I coniugi Camperio si stabilirono a Milano in zona Porta Ticinese e quindi affittarono il primo piano di palazzo Brioschi in via S. Vicenzino 9, palazzo attiguo a via Meravigli dove risiedeva la famiglia Ciani. Qui nacquero quasi tutti i figli di Carlo e Francesca, compreso l’ultimo, Manfredo. Palazzo Ciani fu sede di incontri quotidiani tra intellettuali ed artisti come Gioachino Rossini, Ugo Foscolo, Andrea Appiani, il pittore Giuseppe Bossi, lord ByronGeorge Gordon Byron, Cesare Cantù e Federico Confalonieri. Fu proprio da quest’ultimo che Carlo Camperio acquistò, nel 1818, la casa di villeggiatura di Villasanta, risalente al 1696. Confalonieri, che vi fu confinato nel 1815, aveva a sua volta ereditato la proprietà dalla madre, marchesa Antonia Casnedi. La coppia Camperio-Ciani ebbe dieci figli, di cui sei femmine e quattro maschi dei quali solo due, Filippo e Manfredo, raggiunsero l’età adulta e furono gli eredi universali del patrimonio di famiglia. Filippo (Philippe) Camperio, insigne giurista e uomo politico, visse quasi tutta la vita a Ginevra e, anche grazie al legame con gli zii Ciani, fu in contatto con l’ambiente ginevrino dell’emigrazione politica. Nel 1847 ottenne la cattedra di diritto costituzionale che era stata di Pellegrino Rossi, di cui fu allievo ed amico negli anni della gioventù. Corrispondente appassionato di Cristina di Belgiojoso, fu un personaggio importante nella vita politica della città adottiva.
Manfredo (1826-1899), ultimo dei 10 figli, al quale andò il palco, è la figura più conosciuta della famiglia Camperio, ricordato per l’attività cospirativa e rivoluzionaria che svolse durante i moti risorgimentali e per la sua passione per le esplorazioni e per i viaggi. Fondatore della Società di esplorazione commerciale in Africa (1879) e del periodico L’esploratore (1877), sposò il 30 marzo 1871 Marie Siegfried (1841-1930), originaria di Mulhouse nell’Alsazia francese e proveniente da una famiglia di imprenditori tessili. Figlia di Jean-Jacques Siegfried e di Louise Blech, Marie fu presidente e sostenitrice della Scuola agraria di Aurelia Josz e fu tra le donne che sostennero la necessità dell’istituzione europea della Croce rossa italiana. Furono soltanto i quattro figli di Manfredo Camperio e di Marie Siegfried a ereditare il cognome Camperio: si tratta di Fanny, Filippo, Giulio e Sita.
Solo Filippo (1873-1945) e Sita, tuttavia, vissero a lungo e si sposarono rispettivamente con l’americana Eleonor Terry (1878-1960) nel 1911 e con Luigi Alberto Meyer nel 1899. Nel 1902 il palco passa dunque a Filippo, ammiraglio della Regia Marina, unico discendente maschio della famiglia e ultimo proprietario insieme alla moglie sino al 1920, anno in cui si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala e i palchi vengono acquisiti dal Comune di Milano.
(Antonio Schilirò)
 
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Palco di proscenio, IV ordine, settore destro

Impresari e possidenti
Quando il 3 agosto del 1778 venne aperto al pubblico il Nuovo Teatro Grande alla Scala decaddero i contratti con gli “appaltatori” del vecchio Teatro Ducale. Erano questi i cosiddetti “impresari”, in gergo settecentesco, cui subentrarono nei primi dieci anni di storia del nuovo teatro i Nobili Cavalieri Associati, una rappresentanza del Corpo generale dei proprietari dei palchi costituita dal conte Ercole Castelbarco, dal marchese Giacomo Fagnani e dal marchese Bartolomeo Calderari. Gli Interessati nel scaduto appalto, ossia i vecchi impresari, ebbero però riservato uno spazio nel nuovo teatro scaligero che mantennero con tutta certezza fino al 1796. I “vecchi impresari” erano i fratelli Crivelli, Antonio e Giuseppe, titolari del palco n° 15 del I ordine di destra, e il barone Federico Castiglioni, ispettore del Teatro Ducale e vicedirettore dello stesso per nomina governativa, che compare nel n° 18 del III ordine di sinistra ma che compare anche nei palchi di proscenio del IV ordine, sia nel settore destro sia in quello sinistro.
«La prova di domani è in Theatro, ma l’Impresario, il Sig. Castiglioni, si è raccomandato affinché non ne facessi parola, altrimenti la gente vi accorrerebbe a frotte, e questo non lo vogliamo». Si trattava della prova del Lucio Silla e a scrivere era proprio Wolfgang Amadeus Mozart, al quale gli appaltatori avevano commissionato una nuova opera per l’apertura della stagione di Carnevale del 1773, il 26 dicembre 1772, dopo il successo, due anni prima e nello stesso teatro, di Mitridate, Re di Ponto. Vecchi impresari ma di molto intuito contribuirono alla scelta dell’opera di apertura del Teatro Grande, Europa riconosciuta di Antonio Salieri.
Durante il ventennio napoleonico la proprietà risulta delle sorelle Antonietta (1782-1814) e Francesca (1784-1857) Milesi figlie del ricchissimo commerciante di tessuti Giovan Battista, e di Elena Viscontini, appartenente anch’essa ad una famiglia dell’alta borghesia lombarda arricchitasi con il commercio dei tessuti e che aveva investito i profitti in terre e immobili, a Milano e nel Canton Ticino. Elena è la zia della più famosa Metilde Viscontini, figlia del fratello Carlo e moglie del generale Dembowski, patriota e “maestra giardiniera”, affiliata alla Società dei federati, un circolo cospirativo legato ai liberali piemontesi. Le sorelle Milesi crebbero insieme ai cugini Viscontini (oltre a Metilde, Bianca, Beatrice ed Ercole) che erano spesso ospiti del loro palco alla Scala e frequentarono gli stessi intellettuali e artisti della capitale lombarda, dall’economista e giornalista Melchiorre Gioia al pittore Andrea Appiani, a Ugo Foscolo e a Stendhal. Metilde morrà appena trentacinquenne in casa della cugina Francesca. Stendhal, innamorato non corrisposto di Metilde, riteneva che la sua freddezza fosse dovuta all’influenza della cugina Francesca Milesi, responsabile, a suo dire, di averlo messo in cattiva luce. Lo scrittore così si vendicherà di lei raffigurandola nella Certosa di Parma nel personaggio dell’intrigante marchesa Roversi, mentre a Metilde ispirerà le due protagoniste de Il rosso e il nero: l’orgogliosa marchesa de La Mole porta il nome di Mathilde, e la dolce e infelice Madame de Rênal ha il carattere della Viscontini.
Antonietta sposa un agiato possidente, Camillo Gabrini, mentre Francesca convola a nozze con l’avvocato Giovanni Traversi (1766-1854), uno spregiudicato finanziere legato alla politica, abile a districarsi con i francesi e con gli austriaci. Nel 1817 Traversi acquista dal conte Anguissola un palazzo nel centro di Milano (via Manzoni 10, oggi parte delle Gallerie d’Italia), rileva nel 1817 la Villa Cusani a Desio, opera di Piermarini, dove ospitò Vincenzo Bellini ai tempi de La Straniera, infine nel 1836 compra a Meda la splendida villa neoclassica che l’architetto Leopold Pollack aveva trasformato conglobando nel superbo edificio l’ex-monastero medievale intitolato a San Vittore. Scomparsi in giovane età e senza discendenti i coniugi Gabrini, il palco rimase di Giovanni Traversi sino al 1854 e in usufrutto alla moglie Francesca sino al 1856.
Poiché non ebbe figli, l’avvocato lasciò tutti i suoi beni, compreso il palco alla Scala, al figlio della sorella Margherita, Giovanni Pietro Antona Cordara, il quale assunse il cognome dello zio nel proprio, mutandolo in Giovanni Pietro Antona Traversi (1824-1900). Giovanni Pietro ebbe rapporti con Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, partecipò come volontario alla seconda Guerra d’indipendenza nel 1859 e fu più volte deputato nei banchi della sinistra. Alla sua morte il palco passò al nipote, l’ingegnere Antonio Tittoni (1889-1962), figlio del senatore Tommaso Tittoni e di Bice Antona Traversi.
Ultimo proprietario, dal 1909 sino alla cessione dei palchi al Comune nel 1920, è l’avvocato Bassano Gabba (1844-1928), patriota, volontario nella Terza guerra indipendenza (1866), uomo politico della destra storica, deputato, senatore e per poco più di un anno (dal 1909 al 1910) sindaco di Milano, dopo il palchettista Ettore Ponti.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 1, IV ordine, settore destro

L’economista che voleva la moneta unica europea
Quando il 3 agosto del 1778 venne aperto al pubblico il Nuovo Teatro Grande alla Scala con l’opera Europa riconosciuta di Antonio Salieri, maestro di cappella alla corte viennese, decaddero i contratti con gli “appaltatori” del vecchio Teatro Ducale. Erano questi i cosiddetti Impresari, in gergo settecentesco, cui subentrarono nei primi dieci anni di storia del nuovo teatro i Nobili Cavalieri Associati, una rappresentanza del Corpo generale dei proprietari dei palchi, una sorta di impresariato collettivo costituito dal conte Ercole Castelbarco, dal marchese Bartolomeo Calderari e dal marchese Giacomo Fagnani.
Gli Interessati nel scaduto appalto erano i fratelli Crivelli e il barone Federico Castiglioni, ispettore del Teatro Ducale e vicedirettore dello stesso per nomina governativa; i vecchi impresari ebbero riservato uno spazio nel nuovo teatro scaligero e precisamente nei palchi di proscenio ai due lati del quarto ordine e lo mantennero fino al 1795.
«La prova di domani è in Theatro, ma l’Impresario, il Sig. Castiglioni, si è raccomandato affinché non ne facessi parola, altrimenti la gente vi accorrerebbe a frotte, e questo non lo vogliamo». Si trattava della prova del Lucio Silla e a scrivere era proprio Wolfgang Amadeus Mozart, al quale gli appaltatori avevano commissionato una nuova opera per l’apertura della stagione di Carnevale del 1773 (26 dicembre 1772) dopo il successo, due anni prima, nello stesso Teatro Ducale, di Mitridate, Re di Ponto.
Dopo la Nobile associazione del teatro, dal 1796 al 1920 il palco vede ininterrottamente una famiglia protagonista, quella dei Minetti, a partire da Pietro Minetti (1771-1813) e a continuare con i suoi discendenti diretti o acquisiti. Pietro Minetti aveva fatto fortuna durante il dominio francese: nominato nel dicembre 1797 Ispettore Generale dell’Amministrazione Centrale dei Beni Nazionali della Repubblica Cisalpina, fu Consigliere-Savio (sei sono i consiglieri-Savi eletti dai consigli comunali durante il Regno d’Italia al tempo di Napoleone), notaio e persona molto influente nella gestione degli affari municipali. Sulla sua probità furono avanzate alcune riserve, nonostante il podestà Durini definisse il suo operato in termini positivi come si legge in una lettera del 3 dicembre 1812 dello stesso Durini al prefetto. In essa si informa di aver affidato la sorveglianza degli accenditori delle lanterne pubbliche al “Sig. Savio Minetti il cui zelo è pienamente conosciuto (…) con non poco vantaggio per la pubblica azienda”.
Gli succede nella proprietà del palco dal 1813 al 1837 la vedova Clementina Minetti Albertanelli (1777-1844), che morì nella sua abitazione in contrada S. Fedele e fu tumulata a Basilio all’età di 67 anni. Il palco passa quindi dal 1838 al 1867 alla figlia Carolina (1813-1869), benefattrice del Pio Albergo Trivulzio, delle Stelline, degli Asili Infantili e di altre istituzioni assistenziali. Coniugata con Paolo Cossa, rimasta vedova nel 1848, Carolina sposò in seconde nozze l’economista Guglielmo Rossi (1828-1887) e dal 1868 al 1887 il palco è intestato al secondo marito. Questi svolse la sua attività come docente di Scienze Commerciali ed Economiche all’Istituto Dolci di Milano e quindi come dirigente del Ministero delle Finanze, dove nel 1870 viene nominato Capo divisione della Direzione Generale del debito pubblico (ministro delle finanze: Quintino Sella). Fondatore e poi presidente della Società Lombarda di Economia Politica a Milano, fu membro di varie Società Scientifiche e Accademie italiane ed estere. Si occupò anche di istruzione primaria in Lombardia e presentò la sua Allocuzione storico-statistica nel resoconto dell’Adunanza del 5 nov. 1865 della Società Nazionale per propagare l’istruzione nella campagna. Nel 1858 fonda a Milano il mensile L’Economista: Giornale di agricoltura teorico-pratica del quale è il primo direttore. Nel 1860 pubblica le Bozze di un nuovo sistema di imposte per il Congresso degli economisti di Losanna. Nel 1867 interviene nel dibattito aperto da Cesare Cantù sui vantaggi e le opportunità di una moneta unica europea, premessa di un’auspicata confederazione europea, mettendo in rilievo da studioso dell’economia le non poche difficoltà tecniche e politiche per un progetto così ambizioso. Il suo nome infine figura nell’Elenco Generale dei sottoscrittori all’opera I Mille del Generale G. Garibaldi (Torino, 1874).
Dal 1888 al 1917 la proprietà del palco è dell’avvocato Angelo Confalonieri, al quale lo porta in dote la moglie Luigia Rossi, figlia di Guglielmo. Confalonieri, avvocato procuratore presso la corte d’appello di Milano con studio in via della Spiga 32, fu anche consigliere comunale. Il palco rimase intestato ai suoi eredi dal 1917 al 1920, anno in cui si costituisce l´Ente Autonomo Teatro alla Scala e i palchi vengono acquisiti dal Comune.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 11, IV ordine, settore destro

Il palco dei Brivio e dei Rossetti
Al momento dell’apertura della Scala (1778) il marchese Brivio Sforza (1722-1799), settimo marchese di Santa Maria in Prato, riesce ad acquisire il suo primo palco nell’asta del 30 marzo 1778 per 4.160 Lire austriache; coniugato con la cugina Teresa Visconti di Modrone, ebbe sette figli tra i quali Cesare (1750-1827) che ereditò il titolo e il palco e fu il primo nel 1805 ad assumere dal padre il doppio cognome Brivio Sforza. Dal primo matrimonio con Isabella Durini (1780), Cesare ebbe un solo figlio, Annibale, dal secondo con Apollonia Claudia Erba Odescalchi (1785), altri sei. Con l’arrivo dei francesi al comando del generale Bonaparte nel maggio del 1796, Cesare, considerato vicino agli Asburgo, viene arrestato e condotto a Tortona e quindi a Nizza, per essere rilasciato dopo qualche mese. Il suo palco, al di là della parentesi del 1809 quando è intestato alla “Società di Antonio Veneziani Ricci e successore”, ritorna nel 1813 al vecchio proprietario che nel frattempo era entrato nel favore della corte di Napoleone imperatore dei francesi e re d’Italia, ricoprendo l’incarico di assessore comunale e di vice podestà di Milano e nel 1811 viene nominato da Napoleone ciambellano imperiale e cavaliere ereditario.
Alla scomparsa di Cesare il palco viene ereditato dal figlio di primo letto Annibale Brivio Sforza (1782-1851), coniugato con Francesca Barbiano di Belgiojoso. Dopo la sua morte il palco rimane giacente in eredità per passare nel 1866 all’avvocato Luigi Rossetti (1810-1887), già palchettista dal 1841 del palco n° 7 dello stesso ordine e settore, socio promotore della Società Arti e Mestieri, come si legge dagli atti della Società nella Adunanza Generale dei Soci Promotori del 1853, e segretario della Pia Opera pel patronato dei carcerati e liberati dal carcere, presieduta direttamente dall’arcivescovo di Milano.
All’atto della sua successione, entrambi i palchi vanno a Elisabetta, detta Adele (1854-1943) unica superstite dei figli di Luigi e di Giulia Bonacina. Adele era andata sposa nel 1874 al nobile ingegnere Giambattista Brambilla, Signore di Civesio (feudo acquistato nel 1752 con riconoscimento del titolo da parte dell’imperatore d’Austria). Con il cognome Brambilla, Adele appare proprietaria del palco fino al 1905, anno della morte del coniuge. Nello stesso anno sposa in seconde nozze il ragioniere Antonio Fusi, anch’egli vedovo, consigliere di Milano Assicurazioni. Infatti il palco è intestato a Adele Fusi Rossetti dal 1906 fino al 1920, anno in cui il Comune delibera l’acquisizione dei palchi dietro indennizzo ai proprietari e la costituzione dell’Ente Autonomo Teatro alla Scala.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 13, IV ordine, settore destro

L’etimologia di due cognomi
La storia del palco inizia con la famiglia Bagatti: Giuseppe Bagatti (1750-1795), abate, lo acquista all’asta dei palchi di IV ordine nel maggio 1778, per Lire austriache 5.025, per conto del padre Pietro Antonio (?-1814?), esattore delle tasse al comune di Treviglio. Durante il periodo napoleonico occupa il palco il conte Annibale Lucini (1756-1823), ma nel 1813, quando la stella di Napoleone volge al declino, ritorna ancora il nome di Pietro Antonio Bagatti il quale lascia eredi del palco il figlio Francesco (1768-1821) e i nipoti che ne mantengono la proprietà fino al 1825.
Dall’anno seguente subentra nella proprietà del palco il cavaliere novarese Antonio Avogadro (1785-1840), cognome di casati nobili della provincia di Vercelli, Novara, Brescia, Venezia, Treviso, ognuno articolato in diversi “rami”. Le Notizie genealogico-storiche intorno alla nobile, antica e illustre famiglia Avogadro, di Leone Tettoni (Lodi 1845), forniscono un’interpretazione originale e interessante sull’origine del cognome Avogadro: “Nella storia ecclesiastica, e specialmente nelle rozze carte dei secoli di mezzo, sovente si trova menzione degli avvocati (advocatores et advocati ecclesiae) che vescovi, abati e rettori di chiese prendevano per difesa dei loro beni e diritti. Era stato introdotto dai sommi Pontefici che nelle città di vescovado si eleggesse dal vescovo medesimo qualche nobile e potente uomo in avvocato e difensore della chiesa […] Quest’atto di elezione era, ridotto in uffizio, chiamato Avvogarìa. […] Acciocché l’avvocato potesse svolgere l’Uffizio dell’Avvogarìa con maggiore dignità, gli si concedeva in feudo diverse terre, luoghi e castelli, secondo che la chiesa poteva. Quindi diverse case nobili in Italia, prendendo quest’ Uffizio in cognome distintivo, sono state dette Advocarij, Avogarii, Avogadri […] Così a poco a poco l’Avvocazia divenne stabile in una famiglia, ed a guisa di feudo passò nei figli e discendenti. […] Allorché nell’XI e XII secolo si dilatò e si fissò l’uso dei cognomi, non pare da porsi in dubbio che l’Avvocazìa per successione sia stata l’origin vera del loro cognome, mutato più tardi in Avogadro”. Antonio Avogadro sposò nel 1830 Antonietta Revedin, nobile veneziana, nozze “lietissime” celebrate da omaggi poetici.
Non si sa dove andò Avogadro, ma sappiamo che nel 1835 il palco ha un nuovo proprietario: è Luigi Taccioli (1764-1847), appartenente all’emergente borghesia commerciale e imprenditoriale. Originari di Ghiffa, piccolo paese sul Lago Maggiore, i Taccioli alla fine del Seicento vendevano carbone (donde il nome “tencin”). Nel 1726 abbiamo la notizia di un negozio di vino a Milano e intorno al 1750 Gaetano risulta qui residente e il commercio del vino è l’attività economica principale della famiglia. Nella seconda metà del secolo si assiste all’acquisto di terreni per la produzione e commercio di grano e olio, con appalti molto importanti come l’approvvigionamento del pane all’Ospedale Maggiore di Milano. Alla morte del padre nel 1780, i figli Luigi e Francesco investono nella coltivazione del baco da seta con l’apertura di una prima filanda a Casalmaggiore nel 1793, tra i primi in Lombardia a intraprendere un’attività industriale in un settore destinato nei decenni successivi a un grande sviluppo. La crescita di risorse monetarie spinge la famiglia di mettere a frutto tali capitali attraverso la concessione di prestiti e a svolgere un’attività parabancaria. All’inizio dell’Ottocento i Taccioli sentono l’esigenza di affermare la loro ascesa sociale ed economica dando un’immagine più consona allo “status” a cui aspirano. Nel 1803 acquistano una casa nobiliare a Milano in via Pantano nel centro storico della città, con ampio giardino, cortile di rappresentanza e una spaziosa biblioteca. Ma il simbolo più rappresentativo del loro prestigio sociale è l’acquisto di un palco alla Scala nel 1802 (n° 11, III ordine sinistro) al quale segue il presente palco nel 1836. Inoltre un’accorta politica matrimoniale permette a Luigi di entrare in rapporto con l’alta borghesia milanese. Nel 1806 sposa Giulia Clerichetti, figlia di un affermato commerciante nel settore della seta, attivo nel mondo finanziario e creditizio milanese; zio della sposa è l’avvocato Rocco Marliani, figlio di Pietro, uno dei tre costruttori della Scala, uomo di primo piano dell’establishment politico-istituzionale cisalpino e quindi napoleonico, dal 1811 giudice della Corte d’appello di Milano.
La crescita economica continua durante gli anni francesi, grazie all’espansione del commercio della seta a livello internazionale e a una fortunata serie di investimenti in immobili. Alla morte di Luigi i figli Gaetano (1811-1877) ed Enrico Taccioli (1815-1874) ereditano un patrimonio notevole che comprende, oltre ai due palchi alla Scala, terreni agricoli, un palazzo ed altre unità immobiliari a Milano, la Villa Mirabello di Varese, la Villa di Affori al centro di un’enorme tenuta. Non mancano neanche preziosi oggetti d’arte come una Madonna con Bambino di Bernardino Luini. Gaetano rimane scapolo mentre Enrico sposa nel 1844 Giulia Castiglioni, appartenente ad un illustre casato nobiliare. Dopo la morte precoce della moglie nel 1845, Enrico convola a nozze con Selene Ruga, figlia di Francesco, esponente di una ricca famiglia borghese con forti interessi nel settore bancario.
Le due figlie di Enrico, Margherita (1854-1882) e Giulia (1850-1901) ereditano il palco e si legano a una delle più blasonate dinastie patrizie milanesi, i Litta Modignani, sposando rispettivamente il marchese Giovanni e il cugino Gianfranco. Morta prematuramente e senza figli Margherita, il palco rimane di proprietà di Giulia e quindi dal 1906 viene ereditato dai suoi figli marchesi Enrico (1876-1908) e Gaetano Litta Modignani (1879-1945), maggiore di cavalleria, ufficiale d’ordinanza di Umberto di Savoia. Scomparso Enrico, ultimo proprietario rimane Gaetano, dal 1913 al 1920, anno in cui si costituisce l´Ente Autonomo Teatro alla Scala e i palchi privati vengono acquisiti dal Comune di Milano.
(Antonio Schilirò)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 17, IV ordine, settore destro

Un’asta che diede buoni frutti
Il Teatro Ducale andato distrutto nell’incendio del 1776 aveva solo tre file di palchi, e i palchettisti di allora si videro assegnare i palchi nella stessa posizione nel nuovo Teatro alla Scala; i palchi del quarto ordine vennero messi all’asta nella primavera del 1778. Fu un ottimo affare: il palco n° 17 infatti fruttò 7.150 lire, prezzo superato solo dalle 7.600 lire dal palco n° 18, dello stesso ordine, settore sinistro e quasi tre volte rispetto alle 2.400 lire del costo di un palco di prima fila. Lo acquista Giberto <1.> Borromeo Arese (1751-1837), VIII marchese di Angera e V conte di Arona, che attraverso i suoi discendenti mantenne la proprietà del palco alla sua casata ininterrottamente sino al 1920, cioè sino alla fine della proprietà privata dei palchi con la nascita dell’Ente autonomo Teatro alla Scala. I Borromeo sono una delle più illustri e antiche famiglie patrizie lombarde; l’aggiunta del secondo cognome risale al XVII secolo, al matrimonio di Renato Borromeo (1618-1685), conte di Arona, con Giulia Arese (1636-1704), che porta in dote, quale unica erede, il cospicuo patrimonio del padre Bartolomeo.
La famiglia Borromeo possiede altri tre palchi alla Scala: il n° 5 nel prestigioso II ordine settore destro, anch’esso dall’anno di apertura del teatro; il palco di Proscenio, II ordine, settore destro dal 1827; il n° 14, II ordine, settore destro dal 1831. Giberto <1.> sposa nel 1790 Maria Elisabetta Cusani, figlia del marchese Ferdinando e della marchesa Claudia Litta, rafforzando così i legami con due delle più illustri e anche facoltose famiglie patrizie di Milano. Si riconcilia quindi con la Francia di Napoleone primo console e poi imperatore dei Francesi e re d’Italia, ottenendo nel 1806 la nomina di Cavaliere della Corona di Ferro. Nel 1811 diviene ambasciatore straordinario della città di Milano a Parigi in occasione della nascita del Re di Roma. Con la caduta di Napoleone e il ritorno degli austriaci nel 1815, Giberto <1.> è di nuovo attivo sulla scena pubblica quale membro della Commissione per la riorganizzazione dei Regi Teatri e direttore del Casino dei nobili. Alla sua morte nel 1837 i palchi vengono divisi fra i tre figli: Vitaliano <1.>, Federico e Renato.
Il palco n° 17 passa al terzogenito Federico Borromeo Arese (1805-1887) che però resta celibe e senza figli; anche il fratello Renato, coniugato con Renata Camagni non ha figli. Del palco diviene allora proprietario, dal 1888, il più giovane dei figli di Vitaliano <1.>, Emilio (1829-1898), che il 27 luglio 1858 era convolato a nozze, nella splendida residenza estiva all’Isola Bella, con la giovane nipote Elisabetta Borromeo Arese, figlia del fratello Giberto <2.> (1815-1885). Emilio dal 1891 eredita oltre al palco anche il titolo di XIII marchese di Angera, essendo rimasto l’unico dei fratelli in vita.
Ultima proprietaria del palco è la moglie Elisabetta Borromeo Arese (1839-1926), rimasta vedova nel 1898, che lo frequenta attorniata dai suoi numerosi figli, il cui primogenito Giberto <3.> (1859-1941), elevato a rango di Principe di Angera da Re Vittorio Emanuele III nel 1916, eredita dallo zio, Giberto <2.>, il palco di proscenio nel II ordine destro.
In un solo anno troviamo un nome estraneo alla dinastia Borromeo: nel 1810 il palco ha come utente il letterato Ignazio Cantù, bonapartista, nonno del più famoso Cesare.
Nel 1920, con la costituzione dell´Ente Autonomo Teatro alla Scala, i palchi privati vengono acquisiti dal Comune di Milano.
(Antonio Schilirò)
 
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