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Teatro alla Scala - Ufficio Ricerca Fondi Musicali - Conservatorio G. Verdi di Milano
I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 12, I ordine, settore sinistro

Dalla nobiltà alla borghesia
Quando la famiglia Miconi di nobili origini genovesi si trasferì a Milano nel XVIII secolo acquisì la cittadinanza lombarda e ne sottolineò l’appartenenza con l’acquisto nel 1778 di un palco nel nuovo teatro scaligero appena sorto. I due fratelli Alessandro (1728-1792) e Antonio Maria Miconi (1723-1798), l’uno sacerdote e l’altro senza eredi, lasciarono per testamento i loro beni al nipote Marco Cassera, marito della sorella Teresa: il loro figlio conte Giuseppe <1.> (1784-1813) ereditò il palco. Alla sua morte saranno la vedova Luigia Ferrari Oltrocchi (1796-1813), poi risposata con il conte Francesco Borgia, e la figlia AngiolaAngiola Della Somaglia (1813-1877) a figurare come proprietarie. Ultima esponente del casato Cassera, Angiola si unì in prime nozze al conte Giovanni Cavazzi della Somaglia e in seconde al senatore del Regno Marco Greppi, conte di Bussero. Dedicò la propria vita alla beneficenza; seguendo il suo esempio, anche il figlio Gian Luca rivestì importanti cariche nell’ambito dell’assistenza e dell’impegno sociale e umanitario, divenendo tra l’altro Presidente della Croce Rossa.
Nell’avvicendarsi dei proprietari e delle eredità, il palco fu testimone della trama genealogica intessuta nel XIX secolo tra alcuni dei più importanti casati nobiliari di Milano. La linea ereditaria quindi, pur sotto diversi nomi, si mantenne ininterrotta fino al 1873, anno in cui nella proprietà del palco venne sancito il passaggio dalla nobiltà di centenaria tradizione alla più recente, ma altrettanto potente, alta borghesia lombarda. Così il n° 12 del I ordine sinistro, acquisito da Giovanni Battista Ponti (1827-1882), divenne il palco di una famiglia di facoltosi industriali tessili del varesotto ed ebbe come ultimo proprietario, dal 1885, il suo più noto esponente Ettore Ponti (1855-1919), cui ancora alcune vie di Milano recano omaggio.
Progressista e liberale, il suo impegno, tanto come industriale che come politico, fu volto all’innovazione tecnologica, alla promozione culturale e all’assistenza sociale. Fu uno tra i primi a realizzare villaggi industriali, con scuole, forni e società di mutuo soccorso per gli operai. Finanziò la costruzione, presso l’Ospedale Maggiore di Milano, di due padiglioni per la cura e la riabilitazione degli infortuni sul lavoro. Fu sposato a Remigia Spitaleri dei Baroni di Muglia, di origine catanese e musicista, donna di grande fascino, dalla quale ebbe tre figli. Ponti fu membro della Società anonima per l’esercizio del Teatro alla Scala, della Società Storica Lombarda, dell’Accademia di Belle Arti; fece parte del consiglio di amministrazione della Società Anonima Meccanica Lombarda, che fornì gli areoplani “Aviatix” usati nella guerra italo-turca. Durante il suo mandato di sindaco (1905-1909) Ponti dotò Milano di infrastrutture e servizi pubblici che potessero sostenere la nuova realtà urbana in espansione: alla sua amministrazione si devono l’Azienda elettrica municipale, l’Istituto Autonomo delle Case popolari, i lavori di prolungamento della rete tranviaria, il nuovo macello, il mercato del bestiame e ortofrutticolo. Nel 1906 la città ospitò l’Esposizione Universale, detta “del Sempione”, per l’apertura dell’omonimo traforo ferroviario che metteva in comunicazione Italia e Svizzera. Dopo aver ospitato il re e la regina nella sua residenza a Palazzo Bigli, Ettore Ponti ricevette il titolo, con dignità ereditaria, di Marchese, ad aggiungersi agli innumerevoli altri riconoscimenti: Cavaliere del lavoro, Commendatore della Legione d’onore, Senatore dal 1900. Anche dopo il ritiro a vita privata e la ripresa degli studi, Ettore Ponti non abbandonò il proprio impegno politico e sociale: membro del Comitato Lombardo per le vittime del terremoto di Messina e Reggio Calabria e dell’Associazione per l’alta cultura a Milano, patrocinò la costruzione di Città Studi e fu uno dei promotori degli Istituti Clinici di Perfezionamento per giovani medici (1906).
Così si legge nella commemorazione ufficiale del Senato:“La innata signorilità del Ponti e l’elevato modo di intendere la dignità della rappresentanza cittadina, congiunte alla varia e vasta cultura, e la sua famigliarità colle lingue estere, fecero di lui il sindaco ideale di Milano nel momento in cui si apprestava a divenire il convegno di quanto di più illustre enumerava il mondo industriale, commerciale, scientifico ed artistico”.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 14, I ordine, settore sinistro

Un palco diviso a metà
Già nel 1778, all’inaugurazione del nuovo teatro, la proprietà del palco era condivisa da due blasonati personaggi della Milano dell’epoca: il conte Benedetto Arese Lucini (1734-1804) e il conte Pietro de Capitaneo o de Capitani (?-1784?). Il primo, sposando Margherita Lucini, aveva aggiunto il cognome della moglie a quello della propria casata e ne aveva avuto due figli: Francesco, coinvolto nel processo dei carbonari, e Marco, marito di Antonietta Fagnani, ben nota per i suoi rapporti con Ugo Foscolo.
Pirro de Capitaneo (1742-1807), quinto conte di Concorezzo, forse nipote di Pietro, aveva invece sposato Costanza Fornara avendone quattro figli. Durante le alterne vicende napoleoniche, con il ritorno degli austriaci, il conte aveva creato un affaire diplomatico, avendo protestato e denunciato il proprio parroco Frigerio per aver rimosso lo stemma gentilizio della famiglia, da generazioni ai piedi della croce della parrocchia di Concorezzo. La questione della destituzione del blasone, poi archiviata, sarebbe stata però emblematica delle sorti del casato. Morto Pirro nel 1807, i de Capitaneo sarebbero stati destinati all’estinzione nel giro di una generazione.
Nel 1821 l’acquisto della parte degli Arese Lucini rende proprietario unico Giovanni Battista de Capitaneo (1772-1836); dalla salute precaria, fu costretto ad affidare la gestione di tutti i suoi affari alla moglie Giovanna Serbelloni Sfondrati (1778-1854), cognome nato dalla donazione ereditaria dell’ultimo Sfondrati, Carlo, all’amico Alessandro Serbelloni. Giovanna divenne quindi procuratrice e amministratrice generale del VI conte di Concorezzo, ma la situazione economica e familiare era comunque destinata al declino. L’unico figlio maschio, Pirro, causò alla madre preoccupazioni non da poco e conseguenti traffici diplomatici per risolvere gli imbarazzanti guai politici in cui si era imbattuto: partecipe di una missione clandestina nel 1821 e dei moti di Torino, andò in esilio in Spagna, poi fu condannato a morte ma la pena venne convertita in sei mesi di detenzione. Morì a soli 37 anni e celibe, due anni prima del padre. Anche lo zio, Carlo Pietro sarebbe morto senza eredi per encefalite, causando la fine dei de Capitaneo.
Fu il ramo femminile a far ripartire la genealogia: Giovanna, nominata dall’Imperatrice Maria Teresa dama di palazzo e dama dell’ordine della Croce Stellata, si risposò in seconde nozze con il conte Luigi Attendolo Bolognini. Una delle figlie, Rosina Giovanna de Capitaneo, nata nel 1801, coniugata con Luigi Leandro Carcano, ebbe un unico figlio, Alfredo Giuseppe (1825-1900), Cavaliere dell’Ordine di Malta, proprietario del palazzo in via S. Pietro all’Orto, Segretario di governo, cui si deve la genealogia dei Capitani di Scalve, titolati “cittadini di Bergamo, patrizi milanesi, conti di Concorezzo, grandi di Spagna di I classe, nobili della città di Locarno” fino ad arrivare a Francesco Lorenzo Albertoni (1852-1908) e Uberto Muzio Albertoni.
È proprio a Francesco Lorenzo, presidente della Società di mutuo soccorso degli operai della Val di Scalve, che venne ufficialmente intestato il palco nel 1904. Il suo ricco patrimonio librario fu donato al Comune di Cremona. Il palco passa poi alla vedova Albertoni, contessa Giovanna Amalia “Giana” e dal 1914 al 1920 a Carlo Moretti, ingegnere, esponente di quella borghesia imprenditoriale e industriale che affiancherà l´aristocrazia nell’Italia fascista.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco di proscenio, II ordine, settore sinistro

Storia di un palco, storia di Milano
Il palco di proscenio del II ordine sinistro vede l’avvicendarsi di importanti personalità, attraverso le quali si racconta parte della storia della città di Milano, dall’età napoleonica agli anni risorgimentali fino alle soglie del fascismo, quando nel 1920 si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala ed inizia l´esproprio dei palchi da parte del Comune.
Il marchese Luigi Antonio Recalcati (1731-1787), ultimo esponente dell’omonimo casato essendo morto giovanissimo il suo unico figlio Carlo, come molti altri già faceva parte dell’Associazione palchettisti del Teatro Ducale, costituitasi nel 1756 e rimasta coesa e attiva anche dopo l´incendio del Ducale. Il marchese permuta questo palco di proscenio, comprato negli anni della costruzione del Teatro alla Scala, con quello di fronte, il proscenio del settore destro. Quindi nel 1778 l´Associazione gli subentra come intestataria e rimarrà proprietaria sino a quando compare, nel 1783 e nel 1784, il cavaliere Antonio Greppi <1.> (1722-1799).
Coniugato con la contessa donna Laura Cotta, Antonio Greppi è una figura simbolo dell’imprenditoria lombarda; fornitore ufficiale dei tessuti in lana per l’esercito austriaco, a soli 27 anni divenne incaricato della “Ferma Generale” per la riscossione delle tasse e il risanamento del debito del governo, fino ad essere nominato Cavaliere e Commendatore dell’Ordine Reale di Santo Stefano di Ungheria dalla stessa Imperatrice Maria Teresa, con il riconoscimento di 300 anni di nobiltà pregressa e l’infeudazione dei paesi di Bussero e Corneliano. Antonio Greppi era un uomo dell’ancien régime, come testimonia la cessione del suo palco dal 1787 all’89 alla “Real Cortepalchi della Corona e il fatto che lasciò Milano subito dopo l’arrivo di Napoleone per morire a Reggio Emilia nel luglio del 1799.
Dopo la sua morte, il palco passò al figlio cadetto Giacomo Greppi (1746-1820), banchiere, impegnato nella beneficenza; fu proprio lui nel 1811 ad acquistare i terreni nella frazione di Casate Vecchio di Monticello Brianza e ad avviare i lavori di ristrutturazione, in stile neoclassico, di quella che sarebbe diventata villa Greppi, residenza di villeggiatura della famiglia e oggi gestita per la riqualificazione dal Consorzio Brianteo.
La proprietà del conte Gian Mario Andreani (1760-1830), ultimo esponente di un importante ramo del casato di origine comasca, rimane dal 1823 al 1826. Fratello di Paolo, viaggiatore e appassionato di aeronautica, famoso per i suoi diari di viaggio e per aver fatto volare la prima mongolfiera in Italia, Gian Mario detenne i beni della famiglia, soprattutto quando il fratello Paolo fu costretto dai creditori ad abbandonare Milano. Gian Mario alla sua morte lasciò il proprio patrimonio in usufrutto ai Barnabiti e in proprietà al nipote Alessandro Sormani Andreani, che ne ereditò anche il cognome.
I Trivulzio, originari del pavese, ottennero il palco nel 1827 e ne mantennero la proprietà continuativamente fino al 1920. Vissuto a cavallo tra il periodo napoleonico e la Restaurazione, il primo Trivulzio palchettista di proscenio fu il marchese Gian Giacomo <1.> (1774-1831), Ciambellano e Consigliere comunale dal 1811 al 1827, a dimostrare la potenza della famiglia, stabile e riconosciuta al di là degli avvicendamenti politici: condivise persino la sedizione liberale di Federico Confalonieri, ricordata da Alessandro Manzoni nell’ode Marzo 1821. Oltre a rivestire un importante ruolo come personaggio pubblico, il marchese fu un uomo di cultura ed è ricordato come collezionista per aver continuato l’opera di consolidamento e incremento del patrimonio della famosa Biblioteca Trivulziana, con una collezione iniziata dal nonno Alessandro Teodoro. Proprio con Gian Giacomo il patrimonio collezionistico del palazzo, sito in piazza Sant’Alessandro, si arricchì di rari codici e manoscritti di autori quali Dante, Petrarca e Leonardo, con l’annessione tra gli altri della biblioteca del pittore Giuseppe Bossi. Socio corrispondente dell’Accademia della Crusca, amico di Parini e Monti, il marchese operò in prima persona sui testi, da filologo, restituendo alcune revisioni di opere dantesche, quali il Convivio e la Vita Nuova.
Dal matrimonio con Beatrice Serbelloni nacque Giorgio Teodoro Trivulzio (1803-1856), che ereditò il palco alla morte del padre nel 1831. Cavaliere dell’Ordine di Malta e Decurione di Milano, continuò l’ampliamento della biblioteca come di un vero tesoro. La moglie, Maria Rinuccini, fiorentina, fu corrispondente e consulente di Manzoni per le voci toscane, nel "risciacquare i panni in Arno", ossia nella revisione de I Promessi sposi.
Il figlio Gian Giacomo <2.> (1839-1902), subentrato come proprietario nel 1867, annesse il fondo librario dei Belgiojoso - aveva sposato Giulia Barbiano di Belgiojoso - alla collezione trivulziana e fu il primo ad aprire al pubblico la biblioteca di famiglia. Fu consigliere comunale e senatore dal 1896, oltre a essere socio onorario dell’Accademia di Belle Arti e fondatore della Società storica lombarda.
La storia del palco si concluse infine con suo figlio Luigi Alberico Trivulzio (1868-1938), appassionato d’arte: presidente degli Amici di Brera e del museo Poldi Pezzoli, erede nel 1879 del patrimonio del cugino Gian Giacomo Poldi Pezzoli. Nel 1935 vendette la rinomata biblioteca alla Città di Milano, che ne custodisce da allora il ricchissimo patrimonio presso il Castello Sforzesco: oltre 120.000 volumi, 2.000 manoscritti e rarità.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 5, II ordine, settore sinistro

Il palco della Pelusina e dei Ponti
Nella storia del palco si sono avvicendati personaggi diversi per tempra, posizione sociale e biografia. Due i nomi al centro di una fascinosa vicenda: quello di una ballerina, Vittoria Peluso e quello della famiglia Ponti.
Ci avvicina a Vittoria Peluso il primo proprietario del palco scaligero, il discusso marchese Bartolomeo Calderara (1747-1806), figlio di Antonio e Margherita Litta Visconti, «donna sensibilissima e virtuosissima con un corpo difettoso», cui il figlio era molto legato. Bartolomeo fu uno dei quattro “Cavalieri Associati” impegnati nell’impresa del Nuovo Regio Ducal Teatro, La Scala: Castelbarco, Fagnani, Menafoglio e Calderara erano i titolari della gestione del teatro in merito alle rappresentazioni degli spettacoli, alla vendita dei posti al pubblico, allo smercio di bevande, all’allestimento dei tavoli da gioco. Dalla mente aperta e spregiudicata, frequentatore della cerchia raccolta intorno ai fratelli Verri e al periodico illuminista Il caffè, Bartolomeo, maestro venerabile della loggia massonica “La Concordia” e uno dei Quaranta notabili del consiglio nominato da Napoleone, era legato al famoso Cesare Beccaria non solo per stima e interessi, ma anche per l’ambiguo affaire intrattenuto con Teresa Blasco, la prima moglie del giurista e filosofo. Le posizioni politiche di Calderara erano più pose che reali convinzioni; lontano dagli impegni pubblici, il marchese infatti amava le feste e il teatro tanto da indebitarsi per la sua prodigalità e da sposare, con grande scandalo, la ballerina Vittoria Peluso (1766-1828), detta “La Pelusina”, ricordata da Parini nel sonetto Il pomo che a le nozze di Peleo; concluse la sua carriera nel 1782 al Teatro alla Scala, nella compagnia di Gasparo Angiolini, proprio l’anno prima del matrimonio. Il palco di Bartolomeo Calderara passò alla vedova, che insieme al palco ereditò un cospicuo patrimonio di case, cascine, terreni e ville patrizie, compresa la Villa del Garovo, a Cernobbio, ora Villa d’Este. Dopo un paio d’anni di vedovanza, la marchesa si rimaritò nel 1808 con il generale Domenico Pino (1760-1826) personaggio di primo piano durante il dominio napoleonico.
Dopo una vita intensa e avventurosa, con il rientro degli Austriaci Domenico Pino rinunciò a qualunque carica e decise di ritirarsi con la moglie nella villa di Cernobbio. La Pelusina morì nel 1828 e il palco a lei intestato rimase a lungo giacente in eredità, fino al 1830 quando venne rilevato da Carlo Parea (1771-1834), ingegnere di nobile origine spagnola. A lui si devono tanto importanti opere pubbliche, come i canali del pavese e i ponti di Boffalora e Vaprio, quanto imprese di irrigazione per nobili privati, quali i Belgioioso e i Borromeo. Il figlio Albino fu ingegnere capo della provincia di Milano, oltre che patriota delle Cinque Giornate.
Morto Parea, il palco troverà la sua destinazione definitiva nella famiglia Ponti, che ne manterrà la proprietà fino al 1920. Nata nel 1823 attorno al cotonificio di Solbiate Olona, la Ditta Andrea Ponti compare come intestataria sin dal 1834; fondata da Bartolomeo, Francesco e Giuseppe, e così chiamata in onore del padre Andrea, avrebbe avuto nel corso del secolo un prodigioso successo, non solo nel commercio e nella produzione dei tessuti, ma anche nell’ascesa e nel prestigio sociale dei Ponti. Bartolomeo (1817-1860), proprietario del palco fino alla morte, fu il capo della ditta, coordinando da Milano i commerci della materia prima e la distribuzione dei tessuti e guidando l’impresa con innovazione nella prima fase di crescita. Il grande capitale di cui dispose gli permise di avviare una sorta di attività bancaria, fornendo prestiti ed ipoteche a patrizi e grandi possidenti, e salvando con la propria liquidità, nel 1848, persino la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde.
Morto celibe, Bartolomeo lasciò il suo patrimonio milionario, compreso il palco scaligero, ai nipoti, figli del fratello Giuseppe. La vecchia ditta Ponti venne liquidata, Antonio (1818-1862) e Andrea (1817-1888), palchettisti nel 1884, fondarono una nuova impresa, l’uno nella filiale di Milano e l’altro a Olona. Morto improvvisamente il fratello Antonio, Andrea - omonimo del nonno - prese in mano le redini dell’intera società trasferendosi con la moglie Virginia Pigna e i cinque figli nella residenza milanese di via Bigli, in quel Palazzo Taverna che aveva ospitato nel 1848 il comitato insurrezionale capeggiato da Carlo Cattaneo. Andrea Ponti era il rappresentante ideale di quella classe dirigente illuminata e responsabile, legittimata dalla posizione etica e sociale ad esercitare il potere. Patriota, uomo di cultura e dedito al lavoro, amante del progresso e filantropo, Andrea Ponti era stimato tanto dai capitalisti che dagli operai. In un’ottica socialista e liberale, antesignana di una certa alta e ricca borghesia imprenditoriale del XX secolo, fondò società di mutuo soccorso e casse di previdenza, fece costruire mense, scuole e case per i suoi operai: a Gallarate dall’ospedale alla chiesa al teatro portano il suo nome. Mecenate, amante dell’arte, della scienza e della tecnica, fu tra i sostenitori dell’"elicoptero", il primo tentativo di aviazione dell’ingegnere Forlanini. Dopo l’acquisto del Lago di Varese, si dedicò anche alle infrastrutture, con opere di risanamento e partecipazione alle società ferroviarie. La sordità progressiva lo portò già in vita a dare la procura illimitata degli affari al figlio Ettore, che sarà eletto sindaco della città di Milano, anch’egli palchettista, e nominato primo marchese della famiglia, coronando il sogno dei ricchi, seppur progressisti, borghesi: avere il titolo nobiliare.
Giacente in eredità per anni, nel 1873 la famiglia passò il palco al vecchio fratello di Bartolomeo, Francesco Ponti, e dopo la sua morte, alla figlia Maura (1847-1933). Unita in prime nozze a Claudio Dal Pozzo, marchese di Annone, Maurina si risposò con il marchese Luigi Cuttica di Cassine, consolidando il legame parentale della famiglia con la nobiltà: la coppia era molto nota, lei per le competenze numismatiche (aveva una collezione di monete e medaglie napoleoniche) e per le attività di patronessa e benefattrice, lui per essere nel direttivo del Regio Verbano Yacht Club, socio del Museo Civico di Storia Naturale, oltre che presenza attiva, insieme ad Ettore Ponti della Società Anonima Meccanica Lombarda. Per la famiglia Ponti il possesso di questo e di altri palchi scaligeri suggellava il successo di una libera iniziativa imprenditoriale tipicamente lombarda.
Maura Ponti risulta titolare sino al 1920, anno in cui si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 4, III ordine, settore sinistro

Quel ramo della famiglia Greppi…
La storia del palco racconta dell’articolata genealogia di una delle più importanti casate dell’Ottocento milanese: la famiglia Greppi che, dal XVIII, approderà al XX secolo con una fitta rete di diramazioni, alcune estinte e altre confluite in vari nomi illustri della nobiltà meneghina, con cui il casato Greppi strinse rapporti familiari.
Tutto iniziò con Antonio Greppi <1.> (1722-1799) che già nel 1778 e qualche anno dopo si era premurato di riservarsi ben tre palchi nel nuovo teatro scaligero (palco n° 4 e palco n° 18 del III ordine, settore sinistro; palco di Proscenio del II ordine destro) a suggello della sua clamorosa ascesa sociale: fornitore ufficiale dei tessuti in lana per l’esercito austriaco, incaricato a soli 28 anni della Ferma Generale introdotta da Maria Teresa nel 1750 per la riscossione dei tributi, Consigliere della Camera dei Conti, banchiere di importanza europea ed infine Conte, Cavaliere e Commendatore dell’Ordine Reale di Santo Stefano di Ungheria, con il riconoscimento di trecento anni di nobiltà pregressa e l’infeudazione dei paesi di Bussero e Corneliano. Se la scalata del borghese al titolo araldico incarna il complesso momento storico di transizione, Antonio Greppi rimase un uomo dell’ancien régime; mecenate di artisti e scrittori come Metastasio e Parini, stimato dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, lasciò Milano dopo l’arrivo di Napoleone, di cui era invece intimo il figlio, Paolo Greppi (1748-1800), presunto amante di Giuseppina Beauharnais. Grande e abile diplomatico, anche Paolo dovette presto abbandonare Milano, a causa di una forte animosità della fazione giacobina nei confronti di colui che appariva il punto di riferimento più importante dei moderati, lasciando al conte Melzi la missione di “ambasciatore de’ Cisalpini al Primo Console”.
Proprio durante i turbolenti anni della vicenda napoleonica, il palco portò il nome di uno tra i personaggi più interessanti del periodo, protagonista della scena operistica e della cronaca rosa internazionale: Madama Ragani, da nubile Giuseppina Maria Camilla GrassiniGiuseppina Grassini (1773-1850). Contralto, nata a Varese, si formò musicalmente innanzitutto con la madre, violinista dilettante. Dopo il debutto nel 1789 in alcune opere di carattere comico, “Josephine” volle affermarsi nei ruoli drammatici e molti compositori ritagliarono su di lei la parte di protagonista: fu questo il caso di Giulietta e Romeo di Zingarelli o de Gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa. Il 4 giugno 1800, mentre interpretava sulle scene della Scala La vergine del sole di Gaetano Andreozzi, fece colpo, tra gli altri, su uno spettatore d’eccezione: Napoleone Bonaparte. La relazione intrecciata con lui non le impedì di invaghirsi di altri uomini, perfino del più acerrimo nemico di Bonaparte, il duca di Wellington, conosciuto dalla Grassini durante un soggiorno londinese. Ritiratasi dai palcoscenici nel 1823, la cantante si trasferì definitivamente a Milano, dove si dedicò all’insegnamento, vantando tra le sue allieve le nipoti Giulia e Giuditta Grisi e la celeberrima Giuditta Pasta, di cui Stendhal dirà: “per il canto, essa non è obbligata che alla signora Grassini”.
Con il declino del potere francese il palco tornò ai ‘legittimi’ proprietari, intestato nel 1813 al figlio di Paolo Greppi, Alessandro Paolo (1782-1830), il cui matrimonio con Gabrielle Isaure dei Duchi de Saulx de Tavannes aveva unito il cognome dei Greppi con quello dell’importantissima famiglia di feudatari borgognoni, già imparentata con esponenti dell’alta aristocrazia francese. Alessandro e Gabrielle ebbero tre figli, eredi della bella villa di famiglia a Olgiate Olona.
Dal 1856 proprietaria figura donna Antonietta Greppi (1818-1893), figlia di Antonio <2.> e Margherita Trotti, coniugata con Diofebo Meli Lupi di Soragna. Suo fratello Paolo Emanuele (1831-1896) eredita il palco per tenerlo sino al 1872, e poi dal 1873 al 1877 condividerlo con il fratello Alessandro (1828-1918) che abitava nel palazzo di famiglia in via S. Antonio. Paolo Emanuele ritorna unico intestatario dal 1878 sino al 1883 quando subentra la nobile Luigia Valentina (1824-1896), figlia di Alessandro Paolo e Gabrielle Isaure. Luigia Valentina rimane titolare sino al 1896, ultima discendente di questo altro ceppo della genealogia Greppi.
Il palco passa infatti in eredità alla casata principesca dei Gonzaga di Vescovato, garanzia di imperitura memoria araldica, tramite il matrimonio di Antonietta Greppi (1822-1862) e Luigi Gonzaga di Vescovato (1796-1877): nel 1902 e nel 1903 intestatario è il figlio della coppia, principe Luigi Gonzaga (1857-1906) coniugato con Giovanna Melzi d’Eril, giovane e affascinante ispiratrice della Statua allegorica della Primavera di Giovanni Pandiani. Gli ultimi eredi sono i loro figli Fabio Antonio e Giuseppina.
Fabio Antonio (1885-1906) morì precocemente: “Ricco la mente e il cuore di invidiabili doti | tesoro del presente speranza dell’avvenire | a XIX anni | cielo e terra parve lo contendessero | Vinse il cielo”, lo ricorda accoratamente l’epigrafe sulla tomba. Giuseppina (1882-1948), detta Josephine, sposò il Marchese don Negrone Meli-Lupi di Soragna. collezionista d’arte. Assai attiva nella beneficenza, si contraddistinse come Dama volontaria della Croce Rossa durante la prima guerra mondiale.
A Josephine nata Greppi si aggiunge il nome di Jeanne Melzi d´Eril; non è un´altra proprietaria ma sua madre Giovanna che, rimasta vedova del principe Luigi Gonzaga nel 1906, si rimarita nel 1912 con il nobile Carlo Uboldi de’ Capei.
Le due donne condividono la proprietà dal 1916 al 1920 quando il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati e si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 6, III ordine, settore sinistro

Un “quartetto” di proprietari
Un unico filo genealogico si svolge all’interno del palco n° 6 del III ordine sinistro, congiungendo, dal XVIII al XX secolo le famiglie Boggiari, Mesmer, Crivelli, Cairati. Il palco passò di proprietario in proprietario per via ereditaria diretta, senza cessioni o vendite e, come si legge nelle fonti, racconta – di nome in nome – matrimoni e unioni tra le famiglie.
La storia inizia con don Antonio Boggiari Mesmer (?–1796), con titoli e patrimoni risalenti a suo nonno Antonio: di umili origini comasche, aveva accumulato (tra Sei e Settecento) ingenti capitali e immobili, trovando nella villa di Varedo - che andrà poi ai Bagatti Valsecchi, palchettisti di fama – il riconoscimento pubblico della propria immagine. Il palchettista Antonio era figlio di Ottavio (a sua volta figlio del “nonno” Antonio) e di Marianna Mesmer, erede di facoltosi banchieri di origine svizzera, con possedimenti di vaste proprietà nel monzese. Antonio assunse i due cognomi ereditando il palco dalla parte materna.
Nel turbolento periodo napoleonico, il nome dei Mesmer compare ancora, questa volta unito a quello dei Crivelli del ramo di Nerviano: il palco è di Prospero Crivelli Mesmer (1749-1816), figlio di Giovanni Crivelli e Maria Boggiari Mesmer, erede di Antonio e di Marianna, con l’obbligo di unire al proprio il cognome dell’ava materna e di portare avanti, tra le tante attività, quella di benefattore dell’Ospedale Maggiore. Registrato come palchettista nel 1809, in una delle rare fonti del primo Ottocento, quando Milano gravitava nell’impero napoleonico, Prospero mantiene il proprio posto durante quegli stravolgimenti politici. Tornati gli austriaci e dopo la Restaurazione, nel 1816 ha confermate le credenziali dell’antica nobiltà per sé e per i discendenti.
Sposato nel 1785 con Teresa Casati, don Prospero trasmette il patrimonio e il palco al figlio Don Gaetano Crivelli Mesmer (1796-1862) che, due anni dopo la morte del padre, nel 1818 prende in moglie la giovanissima Francesca Marianna “Teresa” Pò, ancora minorenne - nata nel 1802 - senza troppo scandalo per i tempi ma con la necessaria approvazione famigliare e giudiziaria.
Successori di Don Gaetano sono nell´ordine il figlio Riccardo (?-1877), nel 1867 socio fondatore della Società geografica italiana, e quindi il fratello Giovanni (1802-1882), che nel 1848 era stato un componente della Commissione consulente di finanza e commercio del Governo provvisorio di Lombardia.
Di lì a qualche anno la linea dei Crivelli Mesmer sarebbe confluita in un vicolo cieco. L’unica figlia di Giovanni e Teresa Robecchi (?-1899), Rita Crivelli Mesmer (1850-1915) – proprietaria del palco insieme alla madre dal 1886 – è l’ultima discendente e con lei il cognome si perde.
Impegnata in prima persona nelle associazioni di beneficenza per i civili e i militari, membro del consiglio della sezione femminile delle Dame della Croce Rossa italiana, Rita compie un grande gesto di generosità verso la città di Milano donando nel 1903 alla neonata Galleria d’Arte Contemporanea (oggi GAM-Civica Galleria di Arte Moderna) La Maddalena penitente di Francesco Hayez, dipinto nel 1832, da decenni in possesso della sua famiglia. Donna Rita è la moglie di Michele Cajrati, valoroso combattente della causa italiana, volontario nell’esercito regolare nella terza guerra d’indipendenza, ferito dallo scoppio di una granata austriaca. Ingegnere e architetto, membro della Società storica lombarda, che ne celebra la scomparsa nel 1913 sottolineandone la “meritata fama di genialità e buon gusto”, era dedito alla beneficenza, come molti esponenti della nobiltà d’un tempo: benefattore dell’Ospedale Maggiore, ricopre anche il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione dell’Ospedale Fatebenefratelli. La casa della famiglia Crivelli Mesmer era in via Spiga 21, laddove aveva abitato per lunghi anni sino alla morte nel 1792 l’illustre compositrice milanese Teresa Agnesi; dopo il matrimonio Rita si sposta in casa Cajrati, in piazza Belgiojoso 2.
Il palco viene ereditato dai figli Riccardo Cajrati Crivelli Mesmer (1878-1948), avvocato, appassionato di alpinismo e membro del CAI, e Matelda, impegnata nelle attività sodali della beneficenza e in particolare nella fondazione di un Comitato per la creazione dell’Asilo per ciechi, inaugurato nel 1905 e legato all’Istituto ancor oggi esistente in via Vivaio.
La continuità genealogica dal 1778, anno di inaugurazione del nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala, si mantiene così - come accade nei più importanti palchi del primo e secondo ordine - fino al 1920, quando si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 7, III ordine, settore sinistro

Una galleria di personaggi
Dal 1778 al 1920, gli anni in cui era possibile possedere il proprio privato affaccio sul palcoscenico della Scala e di conseguenza sulla società milanese, il palco n° 7 del III ordine sinistro, a differenza di tanti altri che presentano una certa continuità e omogeneità nella successione dei proprietari, vede un avvicendarsi di personaggi molto vari, per provenienza, posizione e ruolo sociale. Il palco passa infatti, senza presunte derivazioni familiari dirette, dal tesoriere senza sorte al giurista, dal sacerdote latinista al ragioniere, dall’avvocato al console argentino. Ma procediamo secondo l’ordine cronologico delle fonti.
Nel 1778, all’inaugurazione del nuovo Teatro alla Scala, primo proprietario è il tesoriere militare della Lombardia, il marchese Giuseppe Antonio Molo (1729-1796), famoso allora da Milano a Roma non tanto per le sue cariche politiche quanto piuttosto per le disavventure private di un matrimonio da annullare, secondo la causa intentata dalla moglie Marianna Grassi Varesini, dopo 12 anni di convivenza, “ex capite absolutae perpetuae impotentiae”. Stigmatizzato da Pietro Verri come “un Ercole che invece che allegare dei fatti cita degli autori”, lo sventurato e discusso marchese presumibilmente morì senza figli e quindi senza discendenza.
Durante il periodo napoleonico il palco viene assegnato al Consigliere di Prima Istanza Francesco Appiani (1765-1816), giurista: nel 1790 egli risulta membro con Cesare Beccaria della Giunta per la stesura di un codice penale e nel 1812 pubblica un Saggio di giurisprudenza elementare secondo il codice civile di Napoleone il Grande. Primo marito di Carolina de Carolis (1785-1829), da lei ha tre figli, Giovanni (1803-1850), Giuseppe (1804-1850) e Alberico (1807-dopo il 1861), eredi del palco alla morte del padre. Carolina nel 1817 si risposa con Fortunato Venini, aggiungendo il cognome di questi a quello degli Appiani, che compaiono infatti come fratelli Venini Appiani.
Nel 1845 il palco cambia un’altra volta proprietari: dapprima gli Staurenghi e poi i Baroggi, entrambi legati alla località di Proserpio, in provincia di Como, dove tuttora sorgono le due ville signorili. Don Antonio Staurenghi (1791-1882), “forte personalità del clero ambrosiano ottocentesco”, è il primo sacerdote secolare dai tempi dei Borromeo al quale viene affidata la direzione del Seminario arcivescovile di Milano. Rettore e vicedirettore del liceo ginnasio della diocesi e grande latinista, parroco e prevosto di Alzate Brianza, si prodiga con amore paterno per la parrocchia, rinunciando persino nel 1854 alla sede vescovile di Crema che gli era stata offerta. Paolo Staurenghi (1786-1851), proprietario del palco dal 1846, è un ragioniere, consigliere provinciale, titolare dell’omonima ditta e sostenitore della ferrovia Lecco-Taceno che avrebbe dovuto percorrere la Valsassina, progetto mai realizzato.
I Baroggi subentrano agli Staurenghi dopo alcuni matrimoni che avevano saldato l’unione delle due famiglie. Aquilino Baroggi (1801-1874), commerciante in sete, aveva sposato Isabella Londonio, o Landonio, cognata di Stefano Staurenghi. La villa Baroggi Meraviglia Mantegazza di Proserpio poteva vantare tra gli ospiti illustri poeti quali Ugo Foscolo e Vincenzo Monti, che proprio al padre di Isabella, Carlo Giuseppe Londonio, aveva dedicato la prima edizione della sua traduzione dell’Iliade. Carlo Baroggi Staurenghi (1838-1895), avvocato, figlio di Aquilino e Isabella, assume il cognome Staurenghi dallo zio Carlo, morto senza prole; socio contribuente della Società per le Belle Arti ed esposizione permanente in Milano, aveva sposato Cristina Manzoni, figlia dello scrittore Alessandro, della quale rimarrà vedovo nel 1841.
Nel 1874 il palco diventa lo spazio di rappresentanza di Juan Francisco Pelanda (?-1892), console di Argentina a Milano, per passare nel 1877 ai fratelli Radice, Ercole (1854-1901), ingegnere, eletto alla Camera nel 1892 e Iginio (1844-?), avvocato e cavaliere, per passare poi alla figlia di quest’ultimo, Maria maritata Bongiovanni. Dal 1918 compare un ennesimo proprietario, Guido Cesare Cantalupi (1867-?): terrà il palco sino al 1920, quando si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 18, III ordine, settore sinistro

Il palco della famiglia Greppi
La storia del palco segue, per oltre un secolo, il ramo genealogico principale del casato Greppi, ospitando personaggi protagonisti tanto delle vicende di famiglia quanto di momenti di storia della Milano asburgica, napoleonica e sabauda.
Fu il conte Antonio Greppi <1.> (1722-1799), per primo, ad acquistare il palco nel 1778, a coronamento della sua clamorosa ascesa sociale: fornitore ufficiale dei tessuti in lana per l’esercito austriaco, incaricato a soli 27 anni della “Ferma Generale” per la riscossione delle tasse e il risanamento del debito del governo, Consigliere della Camera dei Conti, banchiere di importanza europea ed infine Conte, Cavaliere e Commendadore dell’Ordine Reale di Santo Stefano di Ungheria, con il riconoscimento di 300 anni di nobiltà pregressa e l’infeudazione dei paesi di Bussero e Corneliano.
Antonio Greppi rimase un uomo dell’ancien régime: mecenate di artisti e scrittori come Metastasio e Parini, stimato dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, lasciò Milano dopo l’arrivo di Napoleone, di cui era invece intimo il figlio Paolo <2.> (1748-1800).
Durante gli anni della Repubblica Cisalpina e del dominio napoleonico il palco dell’autoesiliato Antonio Greppi risulta durante il 1809 nelle disponibilità del conte Vitaliano Bigli nei giorni pari e del marchese Cesare Brivio Sforza in quelli dispari mentre nel 1810 ha come utente Giovanni Lonati Comandante di battaglione della Guardia nazionale di Milano.
Nel 1813, con il potere di Napoleone in declino, ritornano i componenti della famiglia Greppi; il conte Antonio era morto nel 1799 e il palco venne ereditato dai nipoti, ovvero i figli del fu Marco Greppi (1745-1800), coniugato con Margherita Opizzoni, morto appena un anno dopo il padre e non altrettanto abile negli affari. Dei tre fratelli, Senatori del Regno, il palco rimase ad Antonio Greppi <2.> (1790-1878), che si alterna ad Alessandro Greppi, figlio di Paolo <2.>.
Ma è Antonio che poi ha il palco per molti anni, sino alla morte; da lui passò ai sei figli, avuti da Margherita Trotti. Tra di essi, si distingue il conte Giuseppe Maria (1819-1921). Personaggio di spicco, diplomatico di lungo corso, entrò nell’amministrazione asburgica nel 1842. L’insurrezione delle Cinque Giornate di Milano del 1848 lo vide esule in Piemonte, dove riprese l’attività diplomatica come rappresentante del Regno di Sardegna e quindi del neocostituito Regno d’Italia in diverse capitali europee (Atene, Monaco, Berlino, Costantinopoli, Madrid) per concluderla nel 1887 a San Pietroburgo con il grado di ambasciatore. Nella sua lunga carriera si trovò a collaborare tanto con Metternich che con Gioberti, Cavour, Visconti Venosta e Crispi. Senatore del Regno, ultracentenario, visse la storia d’Italia da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele III. Così lo ricorda Ernest Hemingway nel XXXIV capitolo di Addio alle Armi, dopo averlo incontrato in un albergo di Stresa, all’indomani della disfatta di Caporetto: "Che cosa pensa sinceramente della guerra?", gli domandai. "Mi pare una cosa stupida", rispose il conte Greppi. "Chi vincerà alla fine?". "L’Italia". "Perché?". "È il paese più giovane". "Sempre vincono i paesi più giovani?". "Per un certo tempo sì, vincono i paesi giovani". "E dopo?". "Invecchiano". "E diceva di non essere saggio!". "Caro ragazzo, questa non è saggezza. È cinismo".
La vocazione politica dei Greppi e la partecipazione alla vita sociale ed economica attraversa tutte le generazioni, sino ad Emanuele Greppi(1853-1931), nipote del diplomatico, sindaco di Milano dal 1911 al 1913, cui si devono l’illuminazione elettrica nelle strade, il miglioramento dei trasporti pubblici ed opere di riassetto urbano, come la realizzazione di Corso Italia e Corso Matteotti.
Il palco dopo la dichiarata comproprietà dei fratelli nel biennio 1882-1883, giace in eredità a nome del fu conte Antonio <2.> dal 1885 al 1920. quando si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco di proscenio, IV ordine, settore sinistro

Tra politica e cronaca rosa
Quando nel 1778 veniva aperto al pubblico il Nuovo Teatro Grande alla Scala decadevano i contratti con gli “appaltatori” del vecchio Teatro Ducale. Erano questi i cosiddetti impresari in gergo settecentesco, cui subentrarono nei primi dieci anni di storia del nuovo teatro i Nobili Cavalieri Associati, una rappresentanza del Corpo generale dei proprietari dei palchi.
Gli Interessati nel scaduto appalto, ossia i vecchi impresari, ebbero però riservato uno spazio nel nuovo teatro scaligero e precisamente nel palco di proscenio del quarto ordine sinistro e lo mantennero con tutta certezza fino al 1796. Erano questi i fratelli Crivelli e il barone Federico Castiglione, ispettore del Teatro Ducale e vicedirettore dello stesso per nomina governativa.
«La prova di domani è in Theatro ma l’Impresario, il Sig. Castiglioni, si è raccomandato affinché non ne facessi parola, altrimenti la gente vi accorrerebbe a frotte, e questo non lo vogliamo». Si trattava della prova di Lucio Silla e a scrivere era proprio W.A. Mozart, al quale gli appaltatori avevano commissionato l’opera per il Carnevale del 1773, dopo il successo di Mitridate, Re del Ponto.
Con l’arrivo di Bonaparte in Italia nel 1796 mutarono le disposizioni tra le file del teatro. A sedere nel palco di proscenio in questione, al posto della vecchia guardia di impresari, diretta emanazione del governo austriaco, fu l’avvocato Sigismondo Ruga (1752-1829), niente meno che uno del triumvirato alla guida del Comitato di governo della Repubblica Cisalpina. Originario di Gozzano, ancora è lì ricordato: «amico ugualmente di Temide, che di Cerere e Pomona, al cui servizio sta occupata gran parte di quella popolazione; che giustamente lo chiama il pubblico benefattore, il mecenate, l’amico dei poveri coloni». Fedele alla causa francese, aveva offerto al nuovo governo la propria casa, ospitando più volte Napoleone e la madre, e, come sostenevano alcuni malignamente, aveva concesso anche la propria moglie Paola Frapolli Zanetti, che si diceva essere l’amante del Generale Murat, Re di Napoli. “Rugabella”, come era soprannominata, era una donna affascinante e anche Ugo Foscolo ne scrive in una lettera all’amico Sigismondo Trechi: «Tornato a casa, mi si è detto che la Ruga si lasciava vedere dinanzi alle mie finestre; non per questo ho voluto aprir le persiane, né far due passi per sentirmi strofinar mollemente ne’ ripostigli della mia immaginazione amorosa la bella lanugine che le corona l’orlo del labbro…».
Altrettanto bella se non di più fu la moglie di Carlo Ruga (1799-?), figlio di Sigismondo, che ereditò il palco dal padre, comparendo nelle fonti dal 1837. Margherita Tealdo «dalla tinta bruna orientale, dal profilo di cammeo, dai lampi neri degli occhi, dalla bocca rossa come il sangue, dalle forme fidiache del corpo maestoso, raggiava malie. Pareva Rebecca.» scrive Raffaello Barbiera nel suo "Passioni del Risorgimento". Patriota come la figlia Selene, fu l’amante del principe Emilio di Belgiojoso, già consorte di Cristina TrivulzioCristina Trivulzio di Belgiojoso, e poi del conte Vincenzo Toffetti, che si innamorò con una passione che vinse il tempo, facendosi addirittura frate alla morte di lei. Carlo Ruga, un po’ come il padre Sigismondo, fu quindi «un buon uomo, uno di tanti personaggi che non parlano».
Nel 1858 il proscenio venne ceduto a un altro principe del foro, Agostino Sopransi (1789-1863), figlio del barone Luigi che era stato avvocato di Giacomo Melzi d’Eril. Durante il governo militare nel 1848 era stato designato podestà dal Consiglio comunale, ma la Guardia Nazionale chiese che si dimettesse, non vedendo di buon occhio che don Agostino fosse cognato del generale Franz Ludwig von Welden, comandante austriaco delle truppe imperiali nel Veneto. Gli successe quindi al governo cittadino Paolo Bassi, che vide l’epilogo delle Cinque Giornate, con la consegna delle chiavi della città a Radetzky.
Morto l’avvocato Sopransi, lasciando ben 40.000 lire di beneficenza, il palco divenne e rimase fino alla fine nel 1920 proprietà dei Lattuada, i fratelli Stefano, Carlo e Francesco, droghieri e negozianti con l’insegna “Indaco e generi di tintoria Milano” in via Monforte 4. L’asse ereditario seguì prima Francesco e poi Anna, maritata Talamona, benefattrice dell’Istituto dei Ciechi di Milano.
Il palco di proscenio del IV ordine sinistro racconta - come tanti altri palchi - la Milano a cavallo tra due secoli, terminando la sua storia nel 1920, quando si avviò alla fine la proprietà privata dei palchi, acquisiti dal Comune di Milano, e si costituì l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 1, IV ordine, settore sinistro

Tra Napoleone, Garibaldi e la nuova Italia unita
Ad acquistare la proprietà del palco, nell´asta del primo aprile, fu don Paolo Meroni (1729-1812) esponente di una delle più note famiglie lombarde, soprattutto nel comasco e nel milanese.
Dopo l’arrivo di Bonaparte a Milano l’assetto sociale, riflesso nell’immagine del teatro e nei suoi palchettisti, mutò radicalmente: i precedenti proprietari filoasburgici furono sostituiti e nelle fonti (per la verità assai rare nel periodo napoleonico) comparvero nomi politicamente graditi al nuovo regime politico. La stessa sorte ebbe questo palco, attribuito nel 1809 alla contessa Masserati, ovvero Francesca Masserati Peregalli Sormani (1770-1854) coniugata con Giuseppe Masserati conte di Lodi vecchio, già vedovo dal 1768 della nobildonna Elisabetta Brady, a sua volta vedova di un nobiluomo comasco. Di origine irlandese, Elisabetta era famosa nella cerchia del Verri oltre che per la bellezza straordinaria per esser poliglotta (conosceva otto lingue); morì incidentalmente per avvelenamento, altrimenti l’avremmo sicuramente incontrata alla Scala. Anche la contessa Sormani rimase vedova: dopo il Massarati, prese come marito un esponente di spicco sin dai tempi della Repubblica Cisalpina, Francesco Peregalli, che diverrà senatore del Regno Italico nel 1810. In quest´ultimo anno troviamo insieme a lei, come utente del palco, Ludovico Barbavara (1772-?).
Dopo la disfatta di Lipsia nel 1813, la fine dei trionfi napoleonici e l’incipiente Restaurazione, ritornano alcuni dei nomi in auge nei tempi asburgici. Ritroviamo così il nome di Paolo Meroni fino al 1838; sembra un paradosso, essendo il Meroni defunto nel 1812, ma succede nella storia del teatro. Un palco fa parte di un’eredità, a volte trasmessa immediatamente ai discendenti, a volte inclusa nelle volontà testamentarie, a volte bene giacente in una trafila successoria il cui nodo si scioglierà soltanto negli anni, quando non nei decenni, successivi. Così è per la proprietà Meroni: il nodo si scioglie nel 1839, quando il palco è attribuito al marchese Giorgio Raimondi Mantica Odescalchi (1801-1882). Protagonista della storia del suo antico casato, egli concentrò nelle sue mani un cospicuo patrimonio, confluito da vari rami familiari, che gli permise una fruttuosa compravendita di proprietà e residenze nobiliari in città come i palazzi in contrada Nova (oggi corso di Porta Nuova) e nella contrada dei Tre Monasteri (oggi via Monte di Pietà) e nei territori del comasco o del Canton Ticino. Ma la sua figura si distinse per il fervente e attivo patriottismo: finanziatore del movimento mazziniano nel 1833, corrispondente epistolare di Carlo Cattaneo, venne coinvolto nei moti insurrezionali del 1848-49. Tra i “cospiratori”, andò esule in Canton Ticino mentre la sua villa dell’Olmo, sul lago di Como, fu occupata e devastata dagli Austriaci, i suoi beni in parte confiscati e in parte sequestrati o gravati dall’imposta straordinaria di guerra. Il marchese poté ritornare a Milano solo nel 1856 per amnistia ricevuta dietro il pagamento imposto da Radezsky di una sorta di tassa “riparatrice” per le trascorse simpatie sabaude. Tuttavia la passione patriottica del Raimondi non si estinse: nel 1859 Giuseppe Garibaldi entrava a Como per liberarla e il marchese si propose di ospitarlo nella sua villa a Fino Mornasco, dove la figlia Giuseppina intrecciò una relazione con l’Eroe dei due Mondi. E si arrivò alla celebrazione del matrimonio (24 gennaio 1860), cerimonia bruscamente interrotta per denuncia d’infedeltà da parte del Generale nei confronti della Raimondi, un matrimonio durato solo un’ora, ma ufficialmente annullato solo nel 1880... quando la realtà supera la fantasia!
Prima di tutto questo, però, il palco era passato nel 1863 dal marchese Raimondi a tre personaggi di diversa origine e occupazione: Paolo Carmine (1831-1889), consigliere comunale di Assago, uomo di certo rilievo se ebbe un lunghissimo necrologio - quasi orazione funebre - pubblicato da Agnelli; Antonio Warchez (1832-?), commerciante nel settore serico, cofondatore del Banco di seta lombardo, oltre che socio del neonato C.A.I. (Club alpino italiano); Giuseppe Ponti (?-24 gennaio 1898), ragioniere, ispettore nel 1871 della Società del Giardino e membro della Società promotrice per le Belle arti.
Il “trio” riflette nel microcosmo scaligero quanto succedeva nel macrocosmo cittadino dove imprenditori e commercianti di estrazione borghese, spesso legati all’industria serica, investivano e diversificavano i capitali a rischio, fondando banche - pullulano le nuove negli anni Settanta - affittando o comprando i palchi, che erano anche un luogo di proficui incontri amicali e di affari.
Nel 1877 a questi nomi si aggiunge quello di Pietro Carmine (1841-1913) che dal 1882 condivide con Paolo, suo fratello, la proprietà del palco. Ingegnere e commendatore, Pietro fu un uomo politico molto attivo sia a livello locale che nazionale, sindaco di Vimercate e presidente del Consiglio Provinciale di Milano, deputato liberale-conservatore sotto diverse legislature, Ministro dei Lavori Pubblici, Ministro delle Finanze, Ministro delle Poste e dei Telegrafi, schierato come “piede in casa” contro quella che si sarebbe rivelata la fallimentare impresa africana.
Il palco rimase in possesso della famiglia Carmine e degli eredi fino alla costituzione dell’Ente autonomo Teatro alla Scala (1920), passando quasi in extremis a quello che probabilmente era un figlio della sorella di Pietro e Paolo, Giuseppe Pirinoli (1864-1944) socio del C.A.I.: con lui si conferma nella storia dei palchettisti la presenza degli appassionati di montagna, che facevano dell’alpinismo e della difesa dell’ambiente naturale una passione oltre che una missione.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 2, IV ordine, settore sinistro

Dal nobiluomo Paolo Meroni a Innocenzo Pini, avvocato e cavaliere
Per decisione della Associazione dei Palchettisti, i palchi del IV ordine vennero messi all’asta da marzo a maggio 1778, eccetto quelli riservati a coloro che, avendo rinunciato a un palco nel teatro della Canobbiana, li avrebbero ottenuti al prezzo fisso di Lire 3.500. Il primo aprile del 1778 Don Paolo Meroni (1729-1812), già titolare del n° 9 del III ordine settore destro, si aggiudicò il n° 1 e il n° 2 del IV ordine, settore sinistro. Il nobiluomo era esponente di una nota famiglia dell’aristocrazia lombarda filoasburgica, cooptata nel governo della città: dal 1784 al 1787 è membro del Tribunale di Provvisione, un’antica istituzione risalente al tempo del Ducato di Milano dei Visconti.
Con l’arrivo di Bonaparte a Milano l’assetto sociale, riflesso nell’immagine del teatro e nei suoi palchettisti, mutò radicalmente: i precedenti proprietari, filoasburgici o presunti tali, furono sostituiti e nelle fonti (per la verità assai rare in questo periodo) comparvero nomi graditi al nuovo regime politico. La stessa sorte ebbero i palchi di Don Paolo; il n° 2 trova come utente nel 1809 Giovanni Battista Calvi (1754-1809?), commerciante di cotone e lane, dilettante di musica e proprietario di un secondo palco acquisito in epoca napoleonica (n° 13, III ordine, settore sinistro) che rimase ai suoi eredi; nel 1810 rimane a Caterina Curioni, già utente nel 1809 del palco n° 3 del IV ordine destro.
Dopo la disfatta dei francesi a Lipsia nel 1813, la fine dei trionfi napoleonici e l’incipiente Restaurazione si ritrovano nelle fonti alcuni dei nomi in auge nei tempi asburgici. Don Paolo ritornò titolare dei suoi due palchi nel IV ordine fino al 1838, paradossalmente ben oltre 20 anni dopo la sua morte, avvenuta già nel 1812. Potrebbe essere stato ereditato da un omonimo (figlio? nipote?), un´ipotesi sinora non suffragata da documenti. Tuttavia non è infrequente trovare nella storia del teatro vicende simili: un palco fa parte di un’eredità che a volte viene trasmessa immediatamente ai discendenti, a volte rimane inclusa nelle volontà testamentarie ma resta giacente in una trafila successoria il cui nodo si scioglie soltanto dopo anni o, addirittura, decenni oppure semplicemente passare ad altri acquirenti. Così fu probabilmente per la proprietà Meroni: il nodo si sarebbe sciolto nel 1839, quando compare titolare la nobildonna Marta Grimani, moglie di primo letto dell’avvocato e cavaliere Innocenzo Pini (1809-1893).
Da questo momento un unico filo familiare racconterà la storia del palco. Nel 1847 Innocenzo Pini sposa in seconde nozze Ersilia Clerici, morta il 28 gennaio 1900. La figura di Innocenzo Pini, di famiglia di origine comasca, era ben nota al suo tempo per le cariche pubbliche e per l’impegno sociale. L’avvocato fu infatti vice podestà del comune di Milano e attivo in molte importanti associazioni benefiche: presidente del Comitato della Croce Rossa Italiana, presidente della Scuola-convitto per le infermiere e presidente della commissione per l’Educazione dei sordo-muti poveri delle campagne, istituzione, quest’ultima, fondata nel 1853 dal conte Paolo Taverna. Era un tipico esponente della nuova classe dirigente post-unitaria. Con lui e con tanti altri il teatro - per l’importante ruolo, non solo culturale ma anche sociale, rivestito sin dalla sua fondazione - il teatro si fa specchio di quella Milano che cambiava tanto negli orientamenti politici, dagli Asburgo a Napoleone, ai Savoia dell’Italia unita, quanto nell’assetto economico e sociale, con il passaggio di testimone dalla vecchia aristocrazia legata alla proprietà terriera, alla nuova borghesia imprenditoriale, fatta di uomini attivi sia nella partecipazione alla vita pubblica della città che nella promozione e nel sostegno ad iniziative di solidarietà.
Innocenzo Pini compare come proprietario dal 1856 sino a dopo le date di morte sua e della moglie; dal 1903 il palco rimarrà giacente in eredità fino al 1920, anno cruciale nella storia dei palchi: il Comune di Milano ne ordinerà l´esproprio e si costituisce l’Ente Autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 6, IV ordine, settore sinistro

Il palco dei Trivulzio Manzoni
Ad aggiudicarsi per primo la proprietà del palco, nell´asta del primo aprile 1778, fu il conte Ambrogio Cavenago (1732-1802), che già possedeva il n° 16 del III ordine destro. Esponente di una delle famiglie benestanti di Milano, ambizioso e devoto alla Casa d’Austria, il conte aveva incrementato la proprietà feudale nella contea di Trezzo ed era divenuto Ciambellano Reale, oltre che uno dei LX Decurioni di Milano nel 1759. Di conseguenza ebbe poca fortuna con l’arrivo di Bonaparte: gli venne addirittura chiesto un risarcimento per i danni provocati dall’armata austro-russa sui suoi possedimenti trezzesi, un giro di parole che si traduceva in realtà con delle sottrazioni indebite per approvvigionare le truppe francesi. E così durante la parentesi napoleonica, il conte Ambrogio - come tanti altri - perse pure il proprio spazio alla Scala e il palco venne affidato a nomi più graditi al nuovo regime politico.
Nel 1809, nelle poche fonti conservate del periodo, risultano come utenti il mercante Ignazio Prata, che lavorava nelle spedizioni delle merci spesso sotto l’ordine del fermiere Antonio Greppi (palchettista), e Giuseppe Cotta Morandini (? - 1842), uomo di punta del governo francese, procuratore generale della Corte di giustizia del Dipartimento dell’Agogna comprendente tutte le terre fra il Ticino e il Sesia (uno dei dipartimenti voluti da Bonaparte), che nel 1822, sotto gli Asburgo, venne nominato consigliere del Tribunale d’appello di Milano. Nonostante ciò, dopo la disfatta di Lipsia nel 1813 e il declino di Napoleone, non mantenne il palco che ritornò ai Cavenago, ovvero agli eredi del conte Ambrogio.
La vedova del conte Cavenago, Anna Maria Rühla von Rühla, si occupò dell’eredità e il palco venne venduto nel 1815 a Giuseppe Camillo Trivulzio Manzoni (1753-1828), conte di Pontenure, dell’insigne casata dei Trivulzio; era figlio di Antonio e di Marianna Manzoni, essa stessa proprietaria di un palco (n° 9, II ordine, settore sinistro), il cui cognome venne aggiunto a quello dei Trivulzio proprio dal figlio Giuseppe.
Dal 1815 al 1920, i Trivulzio Manzoni mantennero il possesso del palco secondo un filo genealogico che li vide unirsi ad altri importanti nomi del patriziato milanese e lombardo. Angelo Maria Trivulzio Manzoni (1794-1871), figlio di Giuseppe Camillo e di Costanza Durini, sposato con Maria Caccia nel 1824, ereditò il palco nel 1856 e alla morte lo lasciò ai figli: Giuseppe (1828-1890), marito di Elisabetta Gallarati Scotti, e Gerolamo Trivulzio Manzoni Caccia (1829-?), che aveva ottenuto la licenza di acquisire e aggiungere il cognome della madre al proprio. Dal 1877 si unì alla proprietà la sorella Giuseppina "maritata contessa Porro Lambertenghi”. Era questa la moglie di Gilberto (o Giberto) Porro Lambertenghi, figlio di Anna Serbelloni e del patriota Luigi, condannato a morte in contumacia, ospite di Ugo Foscolo a Londra e ritornato a Milano solo con l’amnistia del 1840. Gilberto, insieme ai fratelli, aveva avuto come precettore Silvio Pellico. Era appassionato di tennis e fu il primo a scrivere su tale disciplina sportiva.
Nel 1883 vennero aggiunti alla proprietà del palco i figli di Gilberto e Giuseppina, Angelo Maria Porro Lambertenghi e Maria, moglie dell’avvocato e commendatore Giovanni Giacobbe. Appassionata di musica, dedicataria di composizioni pianistiche, Maria era amica di Vittoria Cima, che vedeva ospiti nel suo salotto tanto gli Scapigliati quanto giovani industriali come De Angeli e Pirelli. Anche Maria aveva un salotto, aperto a intellettuali, compositori e artisti: lo teneva nella casa del marito a Magenta, di recente restaurata e ancor oggi nota come Casa Giacobbe. Di lei “dama bella e gentile… aristocratica per modi e per intelligenza, per cultura e per cuore” scrisse una commemorazione il commediografo Giannino Antona Traversi, figlio di un palchettista, l’avvocato Giovanni Pietro. Giannino venne coinvolto in una appassionata e triste relazione con la musicista Hilda Ballio; si rimane stupiti di quanti scenari possa aprire una “apparentemente semplice” storia di un palco scaligero.
Dopo i Porro Lambertenghi, dal 1904, il palco rimane al ramo familiare di Giuseppe Trivulzio Manzoni sotto l’indicazione di “eredi”: non sappiamo i loro nomi perché non compaiono altri intestatari sino al 1920 quando, con la costituzione dell’Ente autonomo Teatro alla Scala e l´esproprio dichiarato dal Comune di Milano, si avvia a conclusione la storia della proprietà privata dei palchi.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 8, IV ordine, settore sinistro

Baroni e mobilieri
Nell´asta del 14-15 maggio 1778 si assicura il palco il notaio Giovanni Francesco Botta, ma non sappiamo per chi faccia da intermediario o prestanome, forse per il conte Pietro Secco Comneno (1734-1816), che risulta intestatario già dal 1779: consigliere di Maria Teresa, egli rivestì numerose cariche politiche e fu un personaggio attivo nella vita culturale e sociale della città. Nel 1772 figurò tra i promotori della Società per l’agricoltura, le buone arti e le manifatture, detta poi Società Patriottica. Frequentò gli ambienti dell’Illuminismo lombardo e le animate discussioni dell’Accademia dei Pugni, di cui fu membro. Si occupò in particolare di questioni economiche esponendo le sue opinioni, negli articoli pubblicati su Il Caffè, il periodico fondato dai fratelli Verri e da Cesare Beccaria impegnato nella diffusione delle idee illuministe in Italia.
Nel 1790 il palco fu assegnato per un anno a Margherita Valtolina, una ballerina, forse moglie di Giovanni e madre di Teresa, anche loro ballerini alla Scala. Ritornato già nel 1791 al conte Secco Comneno, il palco, nel bel mezzo degli anni napoleonici, nel 1809, fu registrato a nome di Carlo Casiraghi e affittato per serata. Dal 1804, al tempo della Repubblica Cisalpina, Casiraghi ricoprì il delicato incarico di Cassiere generale dell’Amministrazione dei fondi del debito pubblico (dal 1805 denominata “Monte Napoleone”), un’istituzione del Ministero delle finanze guidato allora dal conte Giuseppe Prina; al tempo stesso fu un personaggio mondano, socio attivo del Teatro Patriottico fondato da Carlo Porta (successivamente denominato Teatro de’ Filodrammatici) e per gli amici Carlo Porta e Vincenzo Monti “soleva bandire splendidi festini, rallegrati da bellissime donne onde andava superba Milano”.
Nel 1813, con la disfatta di Napoleone a Lipsia e il rapido declino della sua stella, il palco tornò agli eredi della Valtolina, passando alla figlia Teresa tra il 1820 e il 1825, per essere assegnato nel 1826 all’amministratore della sua eredità, il barone Baldassarre Sanner. Appartenente ad una famiglia originaria di Soretta (o Pizzo Suretta), al confine tra la Lombardia e i Grigioni, Sanner fu una figura eminente dell’amministrazione asburgica: consigliere di prima istanza del tribunale di Milano, giudice del tribunale criminale, giudice della Corte dei Conti, ufficiale controllore dell’Accademia fisio-medico-statistica, fondata nel 1844 da Giuseppe Ferrario. Di Sanner rimane la pubblicazione Sullo stato attuale dei beni feudali nel Regno Lombardo-Veneto, pubblicata a Milano nel 1842.
Due anni prima, nel 1840, il palco cambiava proprietario nella persona del barone Stefano Colli, che ne manterrà il possesso fino al 1858, quando fu rilevato dai fratelli Pietro (?-1862) e Gaetano Bigatti (?-1879), titolari di una ditta di mobili fondata nel 1849, “Fabbricanti e Mercanti di Mobili d’ogni qualità magazzino assortito a discretissimi prezzi”, che realizzavano prodotti per le più importanti dimore italiane, come il Palazzo Reale di Modena. I Bigatti rappresentano un esempio dell’ascesa economica e sociale della borghesia imprenditoriale che nel corso del XIX secolo affianca la vecchia aristocrazia come classe egemone e l’acquisizione e il possesso di un palco alla Scala costituisce un riflesso diretto del nuovo ordine sociale.
Nel 1882 il palco venne ereditato da Silvia Bigatti coniugata Galli, madre di Paolo, Mario, Gaetano e Giulio, ingegneri che compariranno come ultimi proprietari del palco a partire dal 1917 fino al 1920, quando il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi e nasce l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 14, IV ordine, settore sinistro

Il palco della Franchetti S.p.A.
Nell´asta del 14-15 maggio 1778 il palco venne acquistato dall´abate Federico Crippa che, forse, se lo era aggiudicato a nome di Giovanni Battista Giani (1708-?), possidente, titolare dal 1779. Fu il figlio Gerolamo Giani (1736-1806)ad ereditare il palco nel 1788 e a sancire definitivamente la posizione sociale della famiglia, ottenendo il titolo di nobile con trasmissione sia ai maschi che alle femmine primogenite, titolo confermato poi nel 1816 ai figli Scipione e Stanislao.
Durante la parentesi napoleonica, nel 1809 e nel 1810, utente del palco è il commerciante e banchiere Gaetano Besana (1779-1857), figura gradita ai francesi. Coniugato con Francesca Angela Restelli fu a capo di quella che sarebbe diventata la Banca Balabio Besana, prima di ritirarsi dagli affari nel 1853.
Sconfitto Napoleone a Lipsia nel 1813, già nello stesso anno i vecchi palchettisti tornarono ai loro posti e così ritroviamo gli eredi Giani fino al 1818, quando il palco venne rilevato da Giuseppe Maria Franchetti (1764-1834); da allora, rimase alla stessa famiglia per oltre un secolo. Giuseppe Maria doveva essere un tipo particolare: figlio di Maria Nava Gentili e di Sansone, ricco commerciante ebreo di Mantova, si trasferì a Milano pare per amore della ballerina Assunta Scanzi, che poi sposò; si convertì al cattolicesimo e agli albori della Repubblica cisalpina acquistò nel 1797 a Inzago la grande villa oggi nota come Villa Gnecchi-Ruscone, sede di un museo delle carrozze, una delle tante ville di delizia sul Naviglio della Martesana, raggiungibile da Milano in dodici ore su un barchetto trainato da cavalli; nel contempo si gettò nel commercio di “pannine e seterie”, lasciato poi per i ben più fruttuosi appalti di forniture militari all’armata francese; entrato in crisi il governo napoleonico, nel 1813 fondò con Pietro Balabio e Carlo Besana (ricchi industriali della produzione serica, il secondo figlio del palchettista Gaetano) un’”impresa di trasporti stradali per merci e passeggeri, che facesse servizio nel Regno” sotto la ragione sociale Impresa delle Diligenze e Messaggerie prima società per azioni della Lombardia. Assorbendo altre linee esistenti, la Franchetti S.p.A attivò un sistema di servizio rapido di vetture che partendo dalla contrada del Monte 5499 (via Monte Napoleone) collegava Milano con Bologna, Firenze, Vienna, Marsiglia e altre città. Dopo il ritorno degli austriaci, Franchetti ottenne la nomina di ufficiale governativo per i teatri milanesi; importante il suo ruolo di mediatore tra le case editrici Ricordi e Artaria per la rappresentazione scaligera di Semiramide di Rossini nella primavera del 1824. Nel 1826 ottenne il titolo nobiliare dall’imperatore Francesco I d’Austria con il predicato “di Ponte”. Da Assunta Scanzi ebbe due figli, Gaetano (1788-1830) e Giuseppina (1792-1873).
Gaetano, noto per la sua Storia e descrizione del Duomo di Milano (1821) era sposato a Luigia o Luisa Migliavacca che gestì la ditta e le proprietà del marito dopo la sua morte, avendo come socio Carlo Vidiserti, marito di GiuseppinaGiuseppina Vidiserti: Vidiserti era proprietario del palco n° 14, IV ordine destro e Giuseppina del n° 15 del IV ordine di sinistra. Tutti i Franchetti furono patrioti ed ebbero un ruolo attivo nei moti del 1848, al punto da ritrovarsi esuli a Locarno insieme a tanti altri antiaustriaci. Il palco rimase così per quasi quarant’anni legato nominalmente al nobile Giuseppe Maria, ben oltre la sua morte: solo nel 1873 risultarono proprietari i figli di Gaetano, Costante, detto Costantino (1826-1908), e Giuseppe (1816-1887) sposato con Giovanna Butti Calderara detta Gina. Non compare tra i proprietari del palco la sorella Carolina, coniugata al nobile Felice De Vecchi. Ma a confermare la complessa polifonia scaligera ci pensa la loro figlia Beatrice che sposa nel 1867 il conte Antonio Cavagna di Sangiuliani, proprietario del palco n° 10 nel prestigioso II ordine, settore sinistro.
Ereditato da Costantino al momento della morte di Giuseppe, il palco passa nel 1910 per testamento a Gaetano Franchetti di Ponte (?-1921), figlio di Giuseppe, socio del Club Alpino Italiano fondato da Quintino Sella nel 1863.
Gaetano mantenne il palco sino al 1920, anno in cui il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi e si costituisce l’Ente Autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 4, I ordine, settore destro

Bigli, Confalonieri ed eredi
La storia del palco n° 4 corre parallela a quella del suo vicino, il palco n° 5 con un primo comune proprietario: Vitaliano Bigli (1731-1804), ultimo discendente della casata, uno dei tre Cavalieri Delegati designati a trattare, a nome del Corpo dei Palchettitsti, con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini la costruzione dei due nuovi teatri, La Scala e la Canobbiana. Il conte Vitaliano, coniugato con la contessa Claudia ClericiClaudia Bigli Clerici, fu proprietario del Palazzo Bigli di via Borgonuovo 20, quello stesso palazzo che, acquistato poi dalla discussa contessa Giulia Samoyloff, già amante dello zar Nicola I e del compositore Giovanni Pacini, divenne centro della mondanità milanese, ospitando ricevimenti e balli in maschera per migliaia di invitati: tra i più famosi, Franz Liszt.
Non avendo discendenti, il palco, occupato nel 1809 e nel 1810 dal marchese Alfonso Visconti Aymi (1753-1826), passa nel 1813 alla contessa Anna Bigli Confalonieri (1733-1819), sorella di Vitaliano e sposa di Eugenio Confalonieri Strattmann, per poi essere ereditato nel 1827 da Tiberio Confalonieri (1762-1844), zio del più noto Federico (1785-1846), patriota del partito degli “Italici puri” e attivista carbonaro. Fu proprio lo zio Tiberio, in occasione della visita imperiale alla città di Milano nel 1825, a chiedere invano a Francesco I la grazia per il nipote condannato e deportato in America.
Il palco per asse ereditario resta di proprietà della stessa famiglia prima attraverso Marianna Belcredi, moglie di Tiberio, che compare titolare del palco nel 1848; non avendo avuto figli, intestatario sarà poi il nipote Luigi Confalonieri Strattmann (1805-1755), figlio di Vitaliano. Dal 1859, seppur indirettamente, i Confalonieri compaiono sempre nel palco scaligero, posseduto da Luigi Calvi (1815-1871), marito di Marianna Confalonieri, figlia di Luigi e nipote di Tiberio Confalonieri, la quale lo terrà in vedovanza dal 1873 al 1881, lasciandolo in eredità alle tre figlie, Maria, Paola ed Elisa.
Nel 1890 compaiono i fratelli Edoardo ed Eliseo Antonio Porro che interverranno poi attivamente nel dibattito di fine secolo, periodo nel quale addirittura si chiuse il teatro.
Dal 1891 al 1903 il palco è intestato al cavaliere Egidio Isacco, arricchitosi con la filatura della seta, filantropo, Medaglia d’oro dei benemeriti dell’Istruzione Popolare per le sue opere a sostegno dell’infanzia. La fondazione di un moderno asilo intitolato allo zio Zaffiro, a Mojana (Como), fece cronaca: “la cerimonia inaugurale ebbe carattere di schietta cordialità e semplicità, ed in pari tempo fu fatta con uno splendore veramente principesco. Un treno speciale della ferrovia Nord trasportò gl’invitati da Milano a Merone; alla stazione di arrivo numerosi landeau dell’Anonima li trasportavano fino alla soglia…” .
Se il palco scaligero rappresentò il fiore all’occhiello per l’immagine del ricco e benvoluto industriale, ancora maggior peso acquisì il matrimonio della figlia Cleofe, ereditiera di numerose proprietà fondiarie e non, con il nobile Luigi Ginami de Licini, di antica e aristocratica famiglia valserianese; la coppia ebbe tre figli: Lorenzo, il primogenito, intestatario per soli tre anni del palco perché morì giovanissimo; delle due femmine, Margherita sposò il conte Giuseppe Cattaneo di Proh, titolare sino al 1920, quando i palchi privati furono espropriati dal Comune di Milano e si costituì l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 5, I ordine, settore destro

Il palco dei patrioti
La storia del palco n° 5 del I ordine destro corre parallela a quella del suo vicino, il palco n° 4, con un primo comune proprietario: Vitaliano Bigli (1731-1804), ultimo discendente della casata, uno dei tre Cavalieri Delegati designati a trattare a nome dellla Società dei Palchettisti con l’arciduca Ferdinando, il conte Firmian e il regio architetto Giuseppe Piermarini la costruzione dei due nuovi teatri, La Scala e la Canobbiana. Il conte Vitaliano, coniugato con la contessa Claudia ClericiClaudia Bigli Clerici, fu proprietario del Palazzo Bigli di via Borgonuovo 20, quello stesso palazzo che, acquistato dalla discussa contessa Giulia Samoyloff, già amante dello zar Nicola I e del compositore Giovanni Pacini, divenne centro della mondanità milanese, ospitando balli in maschera per migliaia di invitati: tra i più famosi, Franz Liszt.
Nel periodo francese (1809) e ancora nel 1813 il palco risulta registrato a nome della contessa Anna Confalonieri, sorella di Vitaliano Bigli e sposa di Eugenio Confalonieri Strattmann, prima di passare in eredità nel 1827 al figlio Vitaliano Confalonieri Strattmann, padre del più noto Federico Confalonieri (1785-1846), patriota del partito degli “Italici puri”. Federico si ricorda come uno dei più tenaci avversari del dominio napoleonico e sostenitore dell’indipendenza lombarda dall’Impero austro-ungarico. Fondatore con Giovanni Berchet, Silvio Pellico e Luigi Porro Lambertenghi del periodico Conciliatore, fu coinvolto nei moti del 1820-21, insieme a Piero Maroncelli e Pellico e condannato a morte, pena commutata nella prigionia a vita da scontare nel carcere dello Spielberg, e deportato a New York. Il teatro divenne, in quegli anni patriottici, “il salotto dei cospiratori”.
Alla morte di Vitaliano (1760-1840), il palco passò in eredità ai due figli Federico, figlio di Antonia Casnedi, che lo tenne sino al 1844, e al fratellastro conte Luigi Confalonieri Strattmann (1805-1885), figlio di secondo letto, nato dal matrimonio di Vitaliano con Maria Litta Modignani, che lo tenne sino al 1858. Nel 1859 venne acquistato dal Cavaliere Ambrogio Uboldi di Villareggio (1785-1865), banchiere e collezionista d’arte e di armi, oltre che filologo. Socio onorario di diverse accademie, come quella di Santa Cecilia, fu consigliere, tra le tante, dell’Accademia di Brera e Cavaliere del Santo Sepolcro. Come altri milanesi, si spese in opere di beneficenza, addirittura donando la propria signorile villa al comune di Cernusco sul Naviglio per allestirvi l’ospedale ancor oggi attivo e a lui intitolato.
Per qualche anno, dal 1869 al 1872, ad Uboldo subentrò Emilia Tebaldi, vedova di Antonio Ravizza, mentre dal 1873 il palco fu posseduto dalla marchesa Giuseppina Arborio di Gattinara (1820-1902), di antica nobiltà piemontese, coniugata nel 1850 con il conte Vittorio Barattieri di San Pietro (1819-1883), liberale, agguerrito generale dell’esercito sabaudo durante la terza guerra d’indipendenza. Nel feudo di San Pietro in Cerro, ancor oggi, numerose sono le testimonianze legate ai Barattieri: oltre al Castello, passato al FAI, anche l’Osteria, denominata Cà Giuseppina, in un edificio restaurato sul finire dell’Ottocento in stile neogotico, dotato di un cortile con loggiato e bifore, destinato ad ospitare la marchesa Giuseppina. La loro figlia Amalia (1858-1925) sposa nel 1887 Carlo Oltrona Visconti (1853-1925); sono forse loro gli eredi di Giuseppina morta nel 1902, ma il palco risulta giacente in eredità sino al 1920, quando compare proprietario il conte Visconti Barattieri Oltrona; è Luigi, primogento della coppia. La costituzione dell’Ente autonomo Teatro alla Scala segna in quell’anno la fine della proprietà privata dei palchi.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 15, I ordine, settore destro

Il palco dei diplomatici della famiglia Crivelli
I Crivelli furono una delle più antiche e potenti famiglie milanesi, annoverando in ogni epoca esponenti di spicco nelle gerarchie al potere, diplomatici di ogni tipo e persino un papa, Urbano III. Imparentata con casati di pari dignità nobiliare, dai Borromeo ai Serbelloni, la sua discendenza nel tempo si è articolata in diversi rami, ed è ad uno di questi – i cosiddetti Crivelli di Cremona - che è legata la storia del palco. Già nel 1778, Antonio Crivelli (?-1782circa) era intestatario del palco insieme al fratello Giuseppe. Il conte Antonio, che rivestiva la carica di Consigliere Intimo di Stato, nel 1766 aveva sposato Franziska Marie Karoline Pückler von Groditz e nel 1775 aveva ottenuto da Maria Teresa il titolo sui feudi di Luino e Quattro Valli.
Alla sua morte ad ereditare tutto ciò e il palco n° 15 fu il figlio Ferdinando Crivelli Pückler (1767-1856), Imperial Regio Ciambellano, Gran-Maestro della Corte dell’Arciduchessa Elisabetta. Sposato nel 1808 a Giulia Serbelloni, dama della Croce Stellata, il conte Ferdinando ottenne di estendere il titolo nobiliare al suo secondogenito, Alberto (1816-1868), che erediterà il palco dal 1856. Da viennese qual era, Alberto rimase legato alla corte imperiale, come ambasciatore austriaco presso la Santa Sede, collaborando alla stesura del Concordato del 1855; dalla sua unione con Maria Serbelloni Sfondrati nel 1857, il casato Crivelli acquisì non solo il ducato di S. Gabrio ma anche il prestigioso cognome, del tutto estinto negli altri rami per mancanza di discendenza maschile e confluito proprio nei Crivelli Serbelloni.
Ad ereditare i cognomi e il palco fu il figlio Giuseppe Crivelli Serbelloni (1862-1918), nato a Madrid durante una delle missioni diplomatiche del padre, avendo addirittura come madrina di battesimo la Regina Isabella di Spagna. Impegnato nell’amministrazione provinciale di Como, in merito a strade, trasporti e navigazione sul lago, fu sindaco di Taino per molti anni, nominato direttamente dal re Umberto I nel 1889. Qui costruì la scuola elementare su un terreno da lui stesso donato al comune, la chiesa di S. Stefano, la scuola materna. Trascorse la propria vita tra il palazzo di Taino, la villa di Luino e la residenza milanese in via Montenapoleone. La città gli deve l’Acquario di Viale Gadio, l’unico edificio eretto nel parco Sempione in occasione dell’Esposizione internazionale del 1906 a non essere smantellato a conclusione dell’evento, divenendo una stazione permanente di studio di bioidrologia applicata. Uomo di vecchio stampo, rimpiangeva di non aver partecipato direttamente all’epoca mitica del Risorgimento italiano e così scriveva all’amico Giulio Adamoli: «Tu non puoi immaginare l’invidia che destano quei ricordi patriottici in coloro che alla patria non hanno potuto dare più di qualche umile opera di pennaiuolo, di verbaiuolo... Beati voi che avete veduto quei tempi, combattuto quelle battaglie». Il conte Giuseppe non volle mai candidarsi al Parlamento per non sacrificare quella sua «tenace, selvaggia indipendenza d’opinioni [che ne] avrebbe fatto un deputato impossibile». La diffusione delle idee socialiste tra i contadini di Taino costrinsero il conte a lasciare la propria carica con tanta amarezza: “Prima taglieremo le teste ai moroni, poi quelle dei Serbelloni” si diceva. Pur con la fama di donnaiolo indefesso, dal 1885 fu sposato ad Antonietta Trotti Bentivoglio, da cui non ebbe figli. Gran parte dei volumi della sua biblioteca furono donati dalla vedova alla Società Storica Lombarda. Emblematicamente la sua morte nel 1918 segnò l’eclissarsi di un mondo: la conclusione della prima guerra mondiale, l’estinzione della famiglia Crivelli Serbelloni, la fine dell’epoca dei proprietari palchettisti alla Scala. Nel 1920 sono cinque i nomi che compaiono contitolari del fu palco Crivelli: l´avvocato Ferruccio Bolchini, gli ingegneri Carlo Castelli, Carlo Clerici e Renzo Turati e l´architetto Ulderico Tononi; ma in quello stesso anno si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco di proscenio, II ordine, settore destro

Il palco dei Recalcati e dei Borromeo Arese
Nel palco di proscenio del II ordine destro si sono avvicendati i personaggi di due tra le famiglie della nobiltà milanese: i Recalcati, ben presto estinti dopo pochi anni di storia scaligera, e i Borromeo Arese, di imperitura dinastia.
Primo proprietario fu il marchese Antonio Luigi Recalcati (1731-1787). Il suo casato estendeva i propri possedimenti tra Milano, la Brianza e il Varesotto; proprio qui, Gabrio Recalcati aveva dato avvio alla costruzione della famosa villa, che nel tempo poté vantare come ospiti personaggi del calibro di Parini o Verdi, fino a diventare poi l’attuale sede della Provincia e della Prefettura di Varese. Dall’unione con Giustina Lambertenghi, Antonio Luigi ebbe solo un figlio, Carlo, morto ventenne nel 1797. Fu così che Giustina Recalcati Lambertenghi (1743-1825), rimasta vedova e senza eredi, fu costretta a disperdere il patrimonio di famiglia, vendendo beni e possedimenti ai Melzi di Cusano e agli Scotti di Vigoleno.
Il palco, invece, divenne e rimase continuativamente proprietà dei Borromeo Arese - già erano stati utenti nel 1809 e 1810 - dal 1827, a partire dal conte Giberto Borromeo Arese <1.> (1751-1837), detto anche il “Gibertone” per gli innumerevoli incarichi di rappresentanza di cui era stato investito dagli austriaci, dopo essere stato incarcerato durante il periodo napoleonico.
Conservatore perpetuo della Biblioteca Ambrosiana, grande e munifico mecenate oltre che uomo pubblico, alla sua morte il palco passò in eredità al figlio Vitaliano (1791-1874) il quale, insieme ai nove figli, guiderà il casato dei Borromeo Arese all’indomani dell’Unificazione. Legato alla corona asburgica, come il padre, da importanti cariche (Ciambellano, Gran Siniscalco, Gran Coppiere, Consigliere intimo, Cavaliere del Toson d’Oro d’Austria…), Vitaliano non si rese mai servile ma piuttosto assunse una coraggiosa posizione patriottica durante le insurrezioni: nel 1848 barricò il proprio palazzo e lo trasformò in una riserva di munizioni e in prigione dove, tra gli altri, venne condotta l’amante del generale Radeszky. Con la soppressione dei moti rivoluzionari, il palazzo venne occupato dagli austriaci e i beni sequestrati. Con i figli già militanti per l’esercito sabaudo, Vitaliano ottenne la cittadinanza sarda e divenne amico di Cavour. Il conte fu un uomo colto, oltre che patriota: appassionato di scienze e botanica, acquistò per sé un intero museo di mineralogia; fu amico di Alessandro Manzoni, che ne immortalò, ne I Promessi Sposi, uno dei più insigni antenati, il cardinale Federico Borromeo. Vitaliano fu anche presidente e membro di diversi consigli: l’Istituto lombardo di scienze e lettere, la Società di Navigazione a vapore del Lago Maggiore, la Società per la ferrovia da Milano a Venezia.
Alla sua morte il palco fu ereditato da uno dei figli, Giberto <2.> (1815-1885), ricordato come l’artista della famiglia. Pittore paesaggista, più che dilettante, aveva studiato con Ashton e Fontanesi e partecipato a diverse esposizioni. Fu consigliere dell’Accademia di Brera e membro del consiglio di amministrazione della Fabbrica del Duomo, oltre ad essere uno dei fondatori della Società storica lombarda.
Il palco passò poi in eredità ad un altro ramo della famiglia, ovvero al fratello Emilio (1829-1909), sposato ad Elisabetta Borromeo Arese, nata Litta Visconti Arese (1839-1928) da cui ebbe un unico figlio, Giberto <3.>. Questi, come i predecessori, fu un tipico esponente della nobiltà milanese dei tempi, dedicandosi all’amministrazione delle proprietà di famiglia, all’impegno pubblico come consigliere comunale e, Senatore dal 1924, alla gestione di imprese e società, soprattutto nel campo delle infrastrutture (Strade Ferrate del Mediterraneo, Ferrovie elettriche Stresa-Mottarone, valico ferroviario del Sempione, linea Domodossola-Locarno). Fu nominato, tra gli altri, Cavaliere dell’ordine di Malta e della Corona d’Italia e venne investito da Vittorio Emanuele III del titolo di 1° principe di Angera.
Giberto <3.> è l´ultimo titolare: nel 1920 il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati e si costituisce l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 11, II ordine, settore destro

Il palco della protesta
Nel 1857, alla rappresentazione d’onore organizzata per rendere omaggio all’Imperatore Francesco Giuseppe in visita alla città di Milano, una piccola messa in scena di patriottismo si consumò all’interno del palco n° 11 del II ordine destro: il conte Massimiliano Cesare Stampa dei marchesi di Soncino (1825-1876), per spregio e protesta alla corte straniera, rimase seduto e con la schiena voltata ai sovrani che facevano il proprio cerimonioso ingresso nel teatro. Venne arrestato e condotto forzatamente a Bormio.
Ma la storia del palco era iniziata molto tempo prima, con altre vicende e altri personaggi.
Nel 1778 fu proprietà del tesoriere militare della Lombardia, il marchese Giuseppe Antonio Molo (1729-1796), famoso allora da Milano a Roma non tanto per le sue cariche politiche, quanto per le disavventure private di un matrimonio da annullare, secondo la causa intentata dalla moglie Marianna Grassi Varesini dopo 12 anni di convivenza “ex capite absolutae perpetuae impotentiae”. E il Verri così lo aveva stigmatizzato: “un Ercole che invece che allegare dei fatti cita degli autori”.
Già prima della morte del tanto discusso marchese, nel 1790, il palco risultava intestato al conte Antonio Lucini Passalacqua, decurione della città di Como ed esponente della nobile famiglia comasca che aveva unito i due cognomi già nel XVI secolo.
Ad eccezione del periodo napoleonico, quando subaffittava questo ed altri palchi Giuseppe Antonio Borrani, caffettiere e faccendiere, la proprietà Lucini Passalacqua si mantenne continua fino al 1834, quando venne rilevata dalla famiglia degli Stampa di Soncino, e in particolare dal conte Carlo Basilio (1796-1874). Vissuto per “esercitare la carità” - come ricorderà nell’epitaffio lo stesso nipote - il conte Basilio era il terzo figlio di Massimiliano Giovanni Stampa e Carlotta Gonzaga, dopo Massimiliano Giuseppe <2.> (1790-1834), e Giovanni (1791-1847), rimasto celibe.
Non avendo avuto figli dal matrimonio con Francesca Spinelli, il conte Basilio passò ben presto il testimone del palco ai nipoti: Massimiliano Giovanni Rinaldo (1816-1858), figlio del primo matrimonio del fratello Massimiliano Giuseppe con Luisa Grisi Barbiano di Belgiojso d’Este, e in seguito al fratellastro di quest’ultimo, Massimiliano Cesare (1826-1876), il già citato patriota, figlio in seconde nozze di Teresa Palazzani, che detenne il palco fino alla morte. Arrestato già all’epoca della prima guerra d’indipendenza, nel 1848, per ordine del viceré Radetzky, sospettato di collaborare con i rivoluzionari, il conte Massimiliano Cesare era riuscito ad evadere dalla prigione di Lubiana dove era stato rinchiuso e a unirsi durante la fuga all’esercito di Carlo Alberto, come tenente dei cavalleggeri. Fallita la rivoluzione, venne costretto agli arresti domiciliari ma durante la seconda guerra di indipendenza appoggiò da Milano l’avanzata di Vittorio Emanuele II; da questi fu nominato colonnello della seconda legione della Guardia Nazionale e quindi anche ufficiale dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia. Insieme alle coraggiose avventure politiche, il conte coltivava più ’innocue’ passioni, come quelle per la floricoltura - tante le esposizioni che lo videro giudice - o quella per i cavalli, che lo portò a fondare la prima associazione nazionale di allevatori di cavalli da corsa. Sposato con la contessa Cristina Morosini, non ebbe figli e alla sua morte, ultimo della sua casata, lasciò titoli e sostanze al piccolo nipote Camillo Casati e una cospicua donazione di quadri e opere preziose alla Pinacoteca di Brera.
La storia del palco prosegue con un nuovo proprietario dal 1875, il barone Emilio Vitta, esponente di spicco della comunità ebraica piemontese, per concludersi poi, dal 1902, con il rinomato avvocato Pietro Volpi Bassani. Questi, impegnato attivamente nella vita della città, aveva fatto erigere l’omonima galleria, poi abbattuta, dove tutt’oggi si trova la centrale Piazza Diaz. Il cavaliere aveva inoltre partecipato economicamente ai lavori di ristrutturazione del Castello Sforzesco: in memoria della moglie Alessandrina aveva pagato il restauro della leonardesca Sala delle Asse. Fu testimone e protagonista di uno dei momenti cruciali o quanto meno significativi nella storia del teatro scaligero: dopo il referendum del 1901 per esprimere un parere “se il comune abbia a concorrere nelle spese di esercizio del teatro alla Scala”, l’impopolarità dell’istituzione presso la maggioranza della cittadinanza milanese aveva costretto da una parte il Comune alla riduzione della dote a 60.000 lire annue e dall’altra un gruppo di privati cittadini a costituire una Società anonima per l’esercizio del Teatro alla Scala con presidente Guido Visconti di Vimodrone e come consiglieri Ettore Ponti, futuro sindaco di Milano, Luigi Borghi, Luigi Erba e appunto l’avvocato Volpi Bassani.
Di lì a poco le istanze di una nuova società avrebbero costretto a un riassetto del sistema produttivo e del mercato dell’arte, in cui il teatro d’opera avrebbe perso la propria centralità, tanto musicale quanto sociale, e reso anacronistico il sistema di proprietà dei palchi che infatti trovò il suo esito nel 1920 nell’esproprio dei palchi da parte del Comune e nella costituzione dell’Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 18, II ordine, settore destro

Un palco unico, di un unico proprietario: il palco dei Resta
Il palco n° 18 del II ordine destro rappresenta un caso unico nella storia dei palchettisti del Teatro alla Scala, in quanto la famiglia Resta ne mantenne ininterrottamente la proprietà fino al 1920, fatto salvo il solo 1809 quando compaiono utenti gli eredi del comandante de Rochel. Il casato Resta, che risale al Trecento, fu per tre secoli una dinastia di notai fino a che un Francesco venne creato conte nel 1679. Il figlio Carlo <1.> (1680-1767) entrò a far parte dell’alta aristocrazia milanese sposando Giulia Visconti, figlia del marchese Pietro, e nel 1724 si trasferì da Porta Ticinese in centro, acquistando una casa da nobile seicentesca tardobarocca e trasformandola in una dimora prestigiosa, lo storico e famoso palazzo all’angolo tra via Conservatorio, via Mascagni e via Passione, Palazzo Resta-Pallavicino, sede oggi della Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali dell’Università statale di Milano.
Il figlio di Carlo, conte Giuseppe Resta <1.> (1730-1801), sposato dal 1757 con Camilla Villani, è il proprietario di un palco alla Scala sin dall’apertura nel 1778, ma già la sua famiglia possedeva un palco analogo nel Teatro Ducale. Nella Milano asburgica, Giuseppe ricopre l’incarico di Giudice delle strade e ottiene il titolo di Ciambellano di S. M. I e Gentiluomo da camera. Con l’entrata a Milano dell’armée d’Italia, sotto il comando del giovane generale Bonaparte nel 1796, il conte Resta, filo-austriaco, riparò in Svizzera, a Mendrisio, quindi a Venezia, a 20 miglia di distanza dalla frontiera lombarda. Gran parte dei beni della famiglia furono confiscati, compreso il palco scaligero, che troviamo assegnato nel 1809 al Comandante della piazza di Milano, il generale De Rochel.
Con il ritorno degli Asburgo nel 1815, essendo morto il conte Giuseppe, è il figlio primogenito conte Carlo <2.> (1768-1838) a riprendere possesso nel 1818 del palazzo di famiglia e del palco alla Scala. Sposato nel 1805 con Maria del marchese Francesco Saverio Olevano Confalonieri, Carlo muore improvvisamente nel 1838 lasciando erede il figlio Giuseppe <2.> (1808-1872) che dopo tre anni di giacenza in eredità prende possesso del palco nel 1842 e lo mantiene sino al 1872.
Giuseppe muore celibe e senza figli e con lui si estingue il ramo principale della famiglia. Erede viene riconosciuto il cugino Giovanni Resta (1807-1882). Fervente patriota già nel 1833 era rimasto implicato in trame politiche anti-austriache che lo avevano costretto a lasciare Milano e rifugiarsi a Parigi. Durante le Cinque Giornate del 1848, il conte fu colonnello della guardia nazionale dei battaglioni delle parrocchie della Passione e di S. Babila. Il suo impegno patriottico gli venne riconosciuto da Vittorio Emanuele II nel 1860, con la nomina a Governatore nei Reali Palazzi di Milano «con tutti gli onori, i privilegi e le prerogative».
Dopo due anni, 1882-83, nei quali risultano titolari Giovanni, la moglie marchesa Francesca Pallavicino Clavello (detta Fanny), sposata nel 1857, e il figlio Ferdinando, e dopo un anno di eredità giacente (1884), il palco passa definitivamente al figlio Ferdinando Resta Pallavicino (1860-1933) che, quale erede della famiglia materna, ottiene da Umberto I la modifica del cognome con l’aggiunta di quello della madre (Regio Decreto gennaio 1891). Imprenditore e uomo politico, viene nominato Senatore del Regno nel 1914. Il marchese Ferdinando è l´ultimo titolare: nel 1920 si costituisce l’Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco di proscenio, III ordine, settore destro

Un palco tra ricchi e “amici dei poveri”
Nel 1778 don Pietro Cozzi, del fu Antonio Maria, ebbe accesso alla proprietà di due palchi nel nuovo Teatro alla Scala, che apriva per la prima volta le porte con Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Del prestigioso I ordine don Pietro condivise la proprietà del palco n° 10 del settore sinistro con una famiglia di antica nobiltà, Caimi Ciceri, e con i fratelli Pini; del III ordine si poté invece permettere l’esclusiva sul palco di proscenio del settore destro. Inserito negli alti gradi nell’apparato della burocrazia della Lombardia asburgica, quale Giureconsulto e tesoriere del Senato, don Pietro ottenne il titolo di barone per Regio Diploma del 1780 in cambio della rinuncia alla privativa della Stamperia ducale di Milano e nel 1795 sancì definitivamente la propria affermazione in città con l’acquisto di Palazzo Porcari, proprio alle spalle della Scala, nell’odierna via Arrigo Boito 8, che sarebbe rimasto alla famiglia Cozzi fino al 1890, quando Giovanni Battista morì senza eredi diretti, lasciando il suo ingente patrimonio al figliastro Pompeo Calvi, mentre il palazzo sarebbe stato acquistato dalla famiglia di industriali del cotone Amman, austriaci di origine ebraica stabilitisi a Milano all’inizio dell’Ottocento
Il 15 maggio 1796 l’esercito francese guidato dal generale Bonaparte faceva il suo ingresso a Milano e da allora fino all’epilogo delle vicende napoleoniche gli assetti sociali si stravolsero e con essi gli ordini del teatro che li rispecchiavano: molti dei palchettisti furono i filofrancesi e il palco di proscenio del III ordine destro ha come utente Carlo De Pietri (circa 1769-1821), al quale Carlo Porta dedica una lunga poesia titolata: Al Sur Carloeu de Peder car amis e bon padron datata 9 luglio 1816, nella quale si ricorda di una serata in casa Giovia arricchita di bevute e scommesse e pretende quindi le sue due bottiglie di buon vino. Il poeta si firma Meneghin Loffi, che è come dire Milanese Spossato, stanco… Ovviamente il testo sottende una metafora: per un poeta come il Porta, il ritorno degli austriaci era “logorante”.
Nell’inverno 1812-13 con la disastrosa campagna di Russia iniziò il declino di Napoleone e i francesi nella primavera del 1814 lasciarono precipitosamente Milano dove il conte Giuseppe Prina, ministro delle finanze del Regno d’Italia, venne linciato a punte di ombrello da una folla inferocita. La Restaurazione era vicina e già nel 1813 molti dei i vecchi proprietari dei palchi tornavano ai propri posti. Luigi Cozzi (1756-1826), figlio di Pietro e Teresa Vigoré, annoverato nell’elenco degli “Amici dei poveri di Milano”, fu proprietario del palco fino al 1823, quando a lui subentrò il figlio Giovanni Battista (1780-1842), avuto dal matrimonio con Camilla Bressi: Giovanni Battista era coniugato dal 1833 con Cristina Bellinzaghi, figlia di una palchettista di vecchia data, Carolina Pecis (n° 13, I ordine, settore sinistro).
Nel 1830 fa la sua comparsa nelle fonti un nuovo nome, quello di Ludwig Franz von Seufferheld (1782–1853), trasferitosi negli anni Venti dell’Ottocento dalla nativa Francoforte sul Meno a Milano. Ludovico Francesco aveva preso residenza a Palazzo Marchetti in contrada del Morone 70 (oggi via Morone 4) e nel 1829 aveva sposato in seconde nozze, a Bergamo, Carolina Maumary, cognata del politico Massimo d´Azeglio.
Barone e banchiere, Seufferheld fu commerciante in seta, un settore in forte espansione nella Lombardia della prima metà dell’Ottocento; egli compare tra i ventiquattro fondatori della Società che nel 1837 promosse e finanziò la costruzione della ferrovia Milano-Venezia. Dei coniugi così si può leggere nelle lettere di D´Azeglio alla moglie Luisa Maumary Blondel, sorella di Carolina: «Seufferheld e Carolina, a Genova, per la festa delle catene! Già, l’ho sempre detto che finiranno sansculottes.». Per lunghi periodi, probabilmente, le due coppie villeggiarono insieme a Villa Monastero, a Fiumelatte sul ramo di Lecco. Un intricato groviglio di legami parentali li univa. Massimo d’Azeglio aveva sposato in prime nozze Giulia Manzoni, figlia di Alessandro e di Enrichetta Blondel, rimanendone presto vedovo. Luisa Maumary era invece la prima moglie di Enrico Blondel, fratello di Enrichetta. In virtù di tale guazzabuglio familiare, non troppo insolito in verità per la nobiltà dei tempi, era probabile che Seufferheld conoscesse personalmente e frequentasse le stesse persone e gli stessi luoghi (ville, o, perché no, palchi) di “Don Lisander”, ovvero Alessandro Manzoni, a tutti noi ben più noto per i suoi meriti letterari.
Morto Seufferheld, il palco venne rilevato nel 1856 da Antonio De Vecchi, industriale serico e banchiere, e alla sua morte nel 1883 dal figlio Massimo (1849-1917), prima da solo poi con alcuni comproprietari industriali. Cavaliere, residente in via Monte di Pietà, fu, quest’ultimo, proprietario e presidente dell’omonima società Massimo De Vecchi, oltre che impegnato su più fronti nella vita sociale ed economica della città: presidente delegato al Consiglio superiore della Banca d’Italia nella sede di Milano, consigliere dell’Associazione per l’assistenza medica negli infortuni sul lavoro, membro della Società di Incoraggiamento di Arti e Mestieri e del consiglio di amministrazione del Teatro Manzoni dalla sua fondazione nel 1872.
Nel 1898 il palco cambiò temporaneamente proprietario, acquistato da Guido de Capitani da Vimercate (1859-1942), ingegnere civile, e dalla consorte Adele, dei quali rimangono i fedeli ritratti di Giuseppe Palanti, esposti nella Quadreria dell’Ospedale Maggiore, in qualità di benefattori.
Dal 1904 al 1917 ritorna la titolarità di Massimo De Vecchi con i suoi consoci, per rimanere poi al già comproprietario avvocato cavaliere Massimo Della Porta (1883-1940), presidente del Consiglio degli Istituti Ospitalieri di Milano, dal 1918 al 1920, anno in cui si costituisce l’Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano inizia l´esproprio dei palchi privati.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 17, III ordine, settore destro

Il palco dei benefattori
Era il 1771 quando finalmente si realizzava quel felice incontro tra carità privata e amministrazione pubblica: in Via della Signora, nel cuore del centro storico, apriva le porte il Pio Albergo Trivulzio, istituzione cardine dell’assistenzialismo milanese. Antonio Tolomeo Trivulzio (1692-1767), principe del Sacro Romano Impero e feudatario imperiale - appena due dei numerosi titoli di cui era investito, per non svolgerne l’intero rotolo - nel 1766 aveva redatto il proprio testamento con un ambizioso e originale progetto, che aveva necessitato del beneplacito dell’autorità: il principe designava come erede universale un ente assistenziale, “un albergo per poveri e impotenti”. Un’eredità davvero longeva, un’intuizione che gli avrebbe garantito ricordo imperituro presso la cittadinanza. Antonio Tolomeo, figlio di Antonio Teodoro Gaetano e Lucrezia Borromeo, dopo aver percorso di malavoglia la carriera militare, ottenuta la separazione dalla moglie nel 1751, trascorse la propria vita non solo da uomo di cultura ma anche da filantropo e benefattore. Tali valori sembrano essere stati rispecchiati anche nella gestione dell’Opera Pia, se non altro nel primo periodo della sua esistenza: definita una felice “unione di arte e pietà”, l’istituzione accumulò nel corso degli anni un ingente patrimonio storico, documentario e artistico, con donazioni frequenti di opere e arredi. Probabilmente anche in questa direzione va letto l’acquisto di un palco di rappresentanza presso il nuovo teatro scaligero, già alla sua inaugurazione nel 1778: il palco rappresentava l’istituto nell’assetto sociale della città, rispecchiato a colpo d’occhio nella disposizione degli ordini del teatro; accoglieva gli ospiti d’onore dell’ente e garantiva anche un sicuro introito tramite l’affitto per parte o per tutta la stagione. Tra gli inquilini illustri, Tito Ricordi, già proprietario del palco in IV fila acquistato dal padre nel 1847, affittò il palco del Pio Albergo per l´intero decennio 1874-1884, assicurandosi così un accesso privilegiato e diretto al Teatro dagli uffici di Casa Ricordi. Nel 1863, il Pio Albergo Trivulzio si fuse nella gestione con gli altri due poli assistenziali di Milano, l’orfanotrofio femminile “Stelline” e quello maschile, i “Martinitt”. I rincari alimentari e l’aumento delle spese edilizie crearono nei decenni successivi una situazione di difficoltà economiche.
Forse proprio per carenza di capitali, il palco, ininterrottamente proprietà dell’ente dal 1778 - tranne quando lo gestiscono gli impresari fratelli Villa nel 1809 e nel 1810, anni di dominio napoleonico - venne venduto nel 1884 alla signora Francesca Pestalozza, sposata con Marco Paletta e residente a Milano in Piazza San Sepolcro 1. Fu allora che Giulio Ricordi, succeduto al padre Tito nella gestione dell´azienda di famiglia, dovette attendere ben cinque anni prima di procurarsi un altro palco (n° 14, III ordine sinistro) in posizione altrettanto centrale.
Dopo una parentesi di qualche anno in cui fu proprietà del consigliere provinciale di Pavia, Giovanni Dozzio e del figlio Ugo, il palco passò nel 1909 al nipote di Francesca, figlio della sorella Leopolda, Carlo Francesco Bordini-Paletta, benefattore, collezionista e appassionato d´arte.
L’ultimo proprietario del palco chiude il cerchio di solidaretà sociale iniziato dal principe Trivulzio: è l’ingegnere e commendatore Giuseppe Feltrinelli (1854-1930). Esponente di una delle più importanti famiglie dell’imprenditoria lombarda, originaria di Gargnano, Giuseppe si impegnò nell’espansione dell’azienda soprattutto nei Balcani. Sindaco di Gargnano, dove tuttora sorge la storica villa di famiglia – ultima residenza di Mussolini, ora albergo di lusso – egli era nipote di quel Faustino, ‘capostipite’ della fortuna dei Feltrinelli che, da magnati del legname, compirono la propria ascesa sociale ed economica fino alla costituzione di una Banca nel 1889. Quando nel 1913 morì senza figli, il fratello di Giuseppe, Giacomo, fu addirittura definito “l’uomo più ricco di Milano”. L’imprenditoria dei fratelli Feltrinelli (il padre di Giuseppe, Angelo, e gli zii Giacomo e Giuseppe), infatti, si era rafforzata e differenziata nel corso dell’Ottocento, diventando pervasiva del tessuto non solo economico ma anche sociale della Lombardia. Impegnati nell’industria del cotone, nell’edilizia pubblica (per cui si deve loro, ad esempio, la costruzione di tratti della rete ferroviaria italiana e di gran parte del quartiere industriale a nord di Milano), nel sostegno ad altre imprese, come la Edison, i Feltrinelli furono un esempio di quell’imprenditoria “illuminata”, che viveva il proprio potere economico come dovere sociale e culturale. Citando soltanto l’odierna Fondazione Feltrinelli, centro di documentazione e ricerca, biblioteca e dal 1954 casa editrice, va sottolineato che tra Otto e Novecento i Feltrinelli donarono alla collettività abitazioni, scuole, ospedali e chiese, tanto nella propria sede a Gargnano che in altre località dove operarono, dal Nord al Sud Italia, all’estero. In particolare, Giuseppe, ultimo proprietario del palco, fu schierato in prima linea, insieme alla moglie, donna Chiara Fisogni, nella solidarietà e nell’assistenza ai bisognosi. “Eretta tra l’estate e l’autunno del 1914 / per dare lavoro e conforto / alle popolazioni delle nostre terre montane / in quei giorni devastate dalla grandine / questa scuola / dalla calamità traendo occasione a suscitare / luce fiamma lievito / di educazione di elevazione morale”, con queste parole Giuseppe Feltrinelli donava la scuola alla comunità di Gargnano. E con le stesse intenzioni l’ingegnere portò soccorso ai terremotati di Messina e Reggio Calabria dopo la disastrosa calamità del 1908. A Messina venne eretto un intero quartiere di case di legno, poi riconvertite in muratura, che porta tuttora il nome di “Quartiere Lombardo”.
Il palco n° 17 racconta nella sua storia di una nobiltà e di una borghesia che fecero del proprio potere economico e politico un obbligo sociale, lasciando alla collettività un’eredità lungimirante e duratura.
(Maria Grazia Campisi)
 
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I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 18, III ordine, settore destro

Isimbardi e Borromeo d’Adda tra politica e beneficenza
Proprio negli stessi anni in cui veniva progettato il nuovo Teatro alla Scala, la famiglia Isimbardi, di antico patriziato pavese, si trasferiva a Milano, acquistando dai Lambertenghi nel 1775 il palazzo in corso Monforte, all’angolo con via Vivaio, in quella zona che – come testimonia il nome stesso della via – era considerata il giardino di Milano. I marchesi Isimbardi, di antica casata pavese e da poco ammessi nel patriziato milanese, arricchirono il patrimonio artistico della prestigiosa dimora, laddove anche Tiepolo aveva lavorato, lasciando un affresco ancora oggi ammirabile. Il palazzo, rilevato dopo alterne vicende negli anni ‘30 del Novecento dalla Provincia, sarebbe divenuto la sede principale della Città metropolitana di Milano.
Primo membro della famiglia ad occupare un palco scaligero, dal 1778, fu Gian Pietro Camillo Isimbardi (1740-1813), che rivestì importanti cariche politiche anche sotto il governo di Napoleone e che fu uno dei pochi aristocratici a conservare continuativamente il palco anche nel periodo francese. Abile e ambizioso, aveva reso il proprio palazzo un centro di studi e raccolte scientifiche di ampia risonanza, dotato di una biblioteca, tuttora funzionante, di un gabinetto di mineralogia e di una raccolta di strumenti e carte nautiche.
All’alba della Restaurazione, dopo la morte di Gian Pietro Camillo, il palco venne ereditato dal figlio, il marchese Alessandro Isimbardi (1769-1821), che unì il proprio casato a quello dei D’Adda sposando nel 1794 la nobildonna Maria d’Adda. Dei tre figli avuti dal matrimonio, l’ultimo e unico maschio, Pietro (1799-1878), ereditò come di consueto titoli, patrimonio e palco, rimanendone proprietario fino alla morte. Amministratore oculato dei propri beni, Pietro si interessò di arte e beneficenza, commissionando, tra i tanti dipinti, il “Gesù Crocifisso con Maddalena” di Francesco Hayez, donandolo poi alla Parrocchia dei SS. Pietro e Paolo a Muggiò. Il dipinto oggi è al Museo Diocesano. Dal matrimonio con Luigia Litta Modignani ebbe una sola figlia, Maria, che andò sposa a Giovanni d’Adda.
Durante i festeggiamenti del Natale 1850, quando la famiglia era riunita presso la dimora di Muggiò, la giovane donna, appena ventitreenne, morì improvvisamente lasciando soli il marito Giovanni e il piccolo figlio Emanuele d’Adda (1847-1911). Questi, ben presto orfano anche del padre e unico erede, fu allevato in casa dello zio paterno Carlo, personalità di spicco dell’Italia risorgimentale: esule a Parigi dopo le Cinque Giornate di Milano, conobbe Cavour e divenne amico del liberale Bettino Ricasoli. Il marchesino Emanuele respirò le ventate patriottiche di quegli anni e aderì ben presto alla causa dell’indipendenza nazionale, arruolandosi volontario con i cavalleggeri di Aosta nel 1866; e continuò poi nella sua vita ad impegnarsi su più fronti nella filantropia. Membro della Società d’incoraggiamento d’Arti e Mestieri, amministratore competente dell’ingente patrimonio fondiario di famiglia, cui si era aggiunto quello degli Isimbardi in Lomellina, Emanuele d’Adda si spese con impegno anche in politica: sostenitore di Depretis contro Crispi, divenne senatore sotto il governo Giolitti. La moglie Beatrice Trotti Bentivoglio, sposata nel 1875, lo sostenne e fu in prima persona coinvolta nelle opere di solidarietà sociale, attiva nei movimenti a favore dell’occupazione femminile. Alla sua morte, non avendo avuto figli, con loro si estinse il ramo principale della famiglia Isimbardi.
Al di là delle numerose donazioni a istituzioni benefiche, ai propri dipendenti e agli affittuari, il patrimonio, i titoli nobiliari, lo stesso cognome e il palco passarono in eredità nel 1917 al cugino Febo Borromeo d’Adda (1871-1945), figlio della zia paterna Costanza e di Carlo Borromeo Arese. Questi, come gli altri esponenti e predecessori della sua famiglia, si impegnò tanto nella beneficenza quanto nella politica. Fu consigliere dell’Istituto Nazionale Vittorio Emanuele III per lo studio e la cura del cancro, sostenitore della causa neutralista durante la prima guerra mondiale, presidente della Croce Rossa Italiana. Sostenitore, fin da giovanissimo, della Destra storica, coprì durante la sua carriera politica numerose cariche: consigliere provinciale, sindaco di Oreno e Cassano d’Adda, deputato del Regno d’Italia dal 1913 e senatore dal 1939. Febo Borromeo D’Adda fu l’ultimo proprietario del palco, sino al 1920 quando, in seguito alla delibera del Consiglio Comunale, avvenne la cessione dei palchi al Comune di Milano e si costituì l´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
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Palco n° 4, IV ordine, settore destro

Dai Trivulzio ai Buffoni
Giorgio Teodoro Trivulzio (1728-1802), IV marchese di Sesto Ulteriano, già titolare di due palchi nei prestigiosi II e III ordine è il primo proprietario del palco, acquistato all´asta il 20 marzo 1778, per il prezzo di 3.500 Lire imperiali, prezzo fissato per tutti coloro che avessero rinunciato al palco nel Teatro piccolo della Canobbiana. Decurione di Milano, Giudice della Strada e Ciambellano, era figlio di Alessandro Teodoro e Margherita Pertusati. Detto “mezz’orbo” per via del suo difetto di strabismo, ebbe il merito di riunire per alcuni anni nel palazzo di piazza Sant’Alessandro la biblioteca ereditata tanto dal padre che dallo zio Carlo, abate e dotto antiquario: si trattava della nota e preziosa Biblioteca Trivulziana, con collezioni di inestimabile valore.
Alla morte di Giorgio Teodoro, la ricca collezione venne spartita in parti eguali tra due dei tre figli maschi, nati dal matrimonio con Maria Cristina Cicogna Mozzoni: Gerolamo e Gian Giacomo Trivulzio (1774-1831), designato anche erede del palco. La parte di raccolta toccata a Gerolamo venne ereditata per discendenza femminile prima dalla figlia Cristina TrivulzioCristina Trivulzio di Belgiojoso - la famosa protagonista del Risorgimento italiano, sposa del giovane e scapestrato Emilio di Belgiojoso - e poi dalla nipote Maria Trotti, che ne vendette la gran la parte all’estero, e il resto alla casa editrice milanese Hoepli, fondata nel 1870 dallo svizzero Ulrico.
Il marchese Gian Giacomo, uomo di grande cultura e collezionista, ebbe invece la possibilità di continuare l’opera di consolidamento e incremento della biblioteca: proprio con lui, il patrimonio librario del fastoso palazzo di piazza Sant’Alessandro si arricchì di codici rari di autori quali Dante, Petrarca, Leonardo, Ariosto con l’annessione tra gli altri del ricchissimo fondo dell’amico pittore Giuseppe Bossi. Di Dante, in particolare sono censiti 25 codici della Divina Commedia, completi o parziali. Socio corrispondente dell’Accademia della Crusca, amico di Parini e Monti, il marchese operò in prima persona da filologo sui testi, restituendo alcune revisioni di opere dantesche, quali il Convivio e la Vita nuova. Vissuto a cavallo tra il periodo napoleonico e la Restaurazione, Gian Giacomo fu anche un importante personaggio pubblico: ciambellano della casa d’Italia, conte del Regno Italico, cavaliere della Corona Ferrea, consigliere comunale di Milano, malgrado i mutamenti di regime, in un ampio arco temporale che va dal 1807 al 1827, a dimostrare la potenza di una famiglia stabile e riconosciuta sotto qualunque bandiera e al di là degli avvicendamenti politici. Il marchese condivise persino la sedizione liberale di Federico Confalonieri, ricordata da Alessandro Manzoni nell’ode Marzo 1821.
Alla sua morte, il palco rimase per qualche anno di proprietà degli eredi, probabilmente i cinque figli (due maschi e tre femmine) avuti dal matrimonio con donna Beatrice Serbelloni. A differenza degli altri palchi di famiglia, nel 1838 il palco 4 venne rilevato e rimase per qualche anno del ragioniere Giovanni Battista Strada, di cui ci rimangono poche notizie, prima di passare in maniera definitiva alla famiglia Buffoni nel 1842, nella persona di Pietro Buffoni fu Francesco (?-1864), censito nelle guide di Milano come “negoziante in telerie, cotonerie, lanerie”. Ricco e affermato mercante, aveva sposato Teresa Crotti, ereditaria del palco e proprietaria dal 1873 al 1877, poi tutrice della figlia. Il patrimonio e il palco passarono quindi alla figlia Carolina maritata Maffoni e poi Baggi. Sarà con lei che si chiuderà la storia del palco, quando nel 1920 il Comune di Milano delibera di procedere all’esproprio dei palchi e si istituisce l’Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
Guarda i proprietari del palco dal 1778 al 1920
 

 

Teatro alla Scala - Ufficio Ricerca Fondi Musicali - Conservatorio G. Verdi di Milano
I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 5, IV ordine, settore destro

La nobildonna e l’angelo custode
Nel 1779, un anno dopo l’inaugurazione del Nuovo Teatro Grande alla Scala, comparvero nelle fonti i nomi dei primi proprietari dei palchi del IV ordine, in parte messi all’asta nel 1778, in parte riservati a prezzo fisso per quei palchettisti che avessero rinunciato a un palco nel teatro “piccolo” della Canobbiana. Così, primo ad aggiudicarsi il n° 5 del IV ordine sinistro fu il marchese don Giuseppe Antonio Molo (1729-1796), proprietario di ben altri quattro palchi nei diversi ordini del teatro. Il marchese era figura di spicco nell’alta burocrazia asburgica: rivestiva la carica di Tesoriere generale militare in Lombardia ed era solito organizzare accademie durante il periodo della Quaresima. Era famoso allora da Milano a Roma, non soltanto per le sue cariche pubbliche ma anche per le disavventure private di un matrimonio da annullare, secondo la causa intentata dalla moglie Marianna Grassi Varesini, dopo 12 anni di convivenza, “ex capite absolutae perpetuae impotentiae”. Stigmatizzato dal Verri come “un Ercole che invece che allegare dei fatti cita degli autori”, lo sventurato e discusso marchese morì probabilmente senza figli e quindi senza discendenza.
Già dal 1790 la sorte del palco riprese con un fitto avvicendamento di nomi: a don Molo era subentrata, solo per un anno, donna Teresa Viani Dugnani (1765-1845), benefattrice e consorte di Giulio Dugnani, poi il palco era tornato al vecchio proprietario.
Nel 1809 e nel 1810, in pieno periodo napoleonico, il palco è assegnato a Giovanni Bonaventura Spannocchi (1742-1832), giureconsulto senese già chiamato dal conte Firmian a far parte del Senato milanese, divenuto nel 1786 presidente del Tribunale di prima istanza, confermato da Napoleone e divenuto poi giudice di Cassazione, quindi presidente del Tribunale di revisione, per arrivare nel 1802 a divenire ministro della giustizia, carica tenuta fino al 1805.
Nel 1813 la proprietà passa al ragioniere Siro Archinti (1755-1815), già proprietario di altri palchi nel II e III ordine sinistro. Alla morte di questi, di lì a breve il palco fu rilevato da don Francesco Vandoni (1743-1818) registrato come “possidente” nella guida di Milano del 1818 che ne godette solo per un paio d’anni e quindi giacente in eredità.
Solo nel 1844 passò come “dote” di nozze alla famiglia di Giovanni Pietro Bellotti, originaria del novarese dove possedeva alcuni fondi sin dall’inizio del Settecento. Giovanni Pietro, nato intorno al 1770, notaio in Milano, infatti, aveva sposato Maria Vandoni, verosimilmente figlia di don Francesco dalla quale aveva avuto tre figli: Cristoforo <1.>, Pietro e Felice. Il patrimonio di famiglia si era ampliato con l’eredità di suo fratello Gaetano, morto celibe nel 1814. Il palco fu condiviso per metà da Pietro Bellotti (1759-1886), assessore della Municipalità di Milano e membro della Società di incoraggiamento di arti e mestieri, e per metà dai due figli di Cristoforo <1.>, Giovanni (?-1866), avvocato e procuratore e Gaetano (1818-1876). Cristoforo <1.> (1776-1856), ingegnere e architetto, era già proprietario di un palco nel I ordine destro, il n° 7; quindi aveva ceduto ai due figli la proprietà del n° 5.
Pietro era sposato a Carolina Mazzeri, da cui aveva avuto due figli, anch’essi dal 1860 indicati tra i proprietari del palco: la contessa Maria Bellotti (1835-1890), moglie di Agostino Petitti Baglioni di Roseto e Cristoforo <2.>(1823-1919), ittiologo, paleontologo e filantropo, conservatore onorario del Museo Civico di Storia Naturale di Milano, socio fondatore della Società Italiana di Scienze Naturali di cui aveva rivestito anche la carica di presidente per un paio d’anni. Uomo colto e generoso, Cristoforo donò alla Biblioteca Ambrosiana il prezioso fondo ereditato dallo zio Felice Bellotti contenente un gran numero di manoscritti di Parini e alla Galleria d’Arte Moderna di Milano la sua collezione d’arte. Il terzo figlio di Giovanni Pietro, Felice, è il più famoso della famiglia, ma non risulta essere stato proprietario di un palco. Poeta classicista, particolarmente noto per le sue traduzioni dal greco delle tragedie di Eschilo, Sofolcle ed Euripide, collezionista, amico di Andrea Appiani, Giovanni Berchet, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo.
Nel 1874, per un solo anno, furono intestatari del palco due apparentemente semplici borghesi: Carlo Bosisio, assistente del custode nel Teatro alla Scala e marito della ballerina Adelaide Superti, ed Ermenegildo Tagliabue (1824-1903?), un commerciante di maiolica antica d’Este. I due sfruttano evidentemente la proprietà scaligera per investimento: tra il 1858 e il 1905 risultano infatti possedere per brevi o lunghi periodi molti altri palchi, da soli, insieme o con altri titolari.
Nel 1875 il palco passò nelle mani del marchese Luigi Carcano (1843-?), figlio di Carlo Camillo e Giuseppina Annoni, che aveva sposato la statunitense Carolina Soren Meriem di Boston, che aveva un palco di famiglia nel IV ordine di sinistra, il n° 12. Il marchese rimase proprietario del palco per più di un decennio, fino a quando nel 1888 gli subentrò il nobile Alberico Colleoni Capilliata (1819-1897), di origine bergamasca, conte dell’Impero Austriaco, figlio di Eleonora Visconti e Bartolomeo Colleoni, poi risposato con Francesca Cusani Confalonieri.
Dal matrimonio di Alberico con Matilde Viola nacque Eleonora Colleoni Capilliata (1852-1924), moglie nel 1873 di Giulio Carlo Stanga e ultima proprietaria del palco. La “bionda ed elegante” nobildonna è ricordata in una tavoletta devozionale per grazia ricevuta, che la ritrae “come una principessa delle favole” mentre, esanime, perde il controllo del suo phaeton (una carrozza sportiva) e, in balia del bianco cavallo imbizzarrito, viene salvata dall’angelo custode. Con la miracolata Eleonora si chiude non solo la storia del n° 5 ma anche quella della proprietà privata dei palchi scaligeri, con l´esproprio del Comune e la costituzione dell´Ente autonomo Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
Guarda i proprietari del palco dal 1778 al 1920
 

 

Teatro alla Scala - Ufficio Ricerca Fondi Musicali - Conservatorio G. Verdi di Milano
I palchettisti della Scala 1778-1920

Palco n° 6, IV ordine, settore destro

Dalla nobiltà asburgica a quella sabauda
Primo ad aggiudicarsi il palco all´asta del 20 marzo 1778 fu il Marchese don Giuseppe Antonio Molo (1729-1796), già proprietario di ben altri quattro palchi nei diversi ordini del teatro. Pagò la cifra di 3.500 Lire imperiali, fissata per tutti coloro che avessero rinunciato a un palco nel Teatro piccolo della Canobbiana. Il marchese era figura di spicco dell’amministrazione asburgica: rivestiva la carica di Tesoriere generale militare in Lombardia ed era solito organizzare accademie musicali durante il periodo della Quaresima. Era famoso allora da Milano a Roma, non soltanto per le sue cariche politiche ma anche per le disavventure private di un matrimonio da annullare, secondo la causa intentata dalla moglie Marianna Grassi Varesini, dopo 12 anni di convivenza, “ex capite absolutae perpetuae impotentiae”. Stigmatizzato dal Verri come “un Ercole che invece che allegare dei fatti cita degli autori”, lo sventurato e discusso marchese morì probabilmente senza discendenza.
Durante la parentesi napoleonica, nel 1809 e nel 1810, compare utente del palco Francesco Vandoni (1743-1818), possidente e proprietario anche del contiguo palco n° 5; ma se quest’ultimo venne mantenuto dagli eredi fino al 1843, il palco n° 6 alla sua morte passò al nobile Stanislao Giani, figlio di quel Girolamo che aveva consolidato la posizione sociale della famiglia ottenendo nel 1792 il titolo nobiliare con trasmissione sia maschile sia femminile, poi confermato nel 1816 all’indomani della Restaurazione.
Nel 1823 subentrò il notaio Levino Menagliotti, possidente di numerose proprietà a Malnate e marito di donna Elisabetta (detta Bettina) nata Brentani, intestataria del palco a partire dal 1826.
L’esplosione nel marzo del 1848 dei moti rivoluzionari delle Cinque Giornate di Milano e la sconfitta dei piemontesi nella prima Guerra d’indipendenza comportarono per la capitale lombarda la dura repressione austriaca, concretizzatasi con il giogo militare, con il prolungamento dello stato d’assedio anche nella censura e in una sorta di damnatio memoriae degli esponenti del ceto nobiliare bollato come inaffidabile e filo-sabaudo. È così che tra il 1849 e il 1855 nessuna notizia perviene sulla distribuzione dei palchi scaligeri. Dopo che l’ordine fu saldamente ristabilito una svolta nei rapporti tra i milanesi e l’amministrazione asburgica si ebbe grazie all’atteggiamento più conciliante del nuovo viceré del Lombardo-Veneto, l’arciduca Massimiliano d’Asburgo, fratello dell’imperatore, nominato in sostituzione del vecchio feldmaresciallo Radetzky. Così i palchettisti ricompaiono nelle fonti dal 1856. Ad occupare il palco dal 1856 al 1864 è donna Marietta Calderara Stabilini, vedova del conte Carlo morto nel 1854 senza figli, che lasciò erede del suo ingente patrimonio (sei milioni di lire, compreso il palazzo Calderara a Vanzago) l’ospedale Maggiore di Milano.
Ma un cambiamento politico più decisivo era alle porte e il teatro ne fu la rappresentazione sociale. Dopo la seconda guerra d’indipendenza e l’unificazione di quasi tutta la Penisola sotto la monarchia sabauda, nel 1865 il palco fu assegnato a una delle più importanti famiglie della nobiltà piemontese, i La Fléchère de Beauregard, nella persona del conte Claude Jacques (1780-?). Si trattava di un antico casato del ducato di Savoia, che vantava fin dal XIII secolo un susseguirsi di nomi illustri tra le cariche militari e ecclesiastiche. Fratello di Alexis-Ange, il conte Claude Jacques, storpiato nell’italiano Giacomo Lafer, nel 1873 lasciò il palco al nipote conte Alessio, ovvero Alexis de La Fléchère de Beauregard (1822-1887). Marito di Marie de Huillier d’Orcières, fu questi un attivo uomo politico, eletto per ben due volte al parlamento di Torino durante la VI e la VII legislatura del Regno di Sardegna.
Negli ultimi quindici anni, dal 1905 al 1920, il palco appartenne a Eugenio Fano, figlio di Israele (Innocente) Miracolo Fano ed Emilia Maroni, e ai suoi eredi, tutti appartenenti all’alta borghesia di origine ebraica: il padre, banchiere; il fratello Odoardo, garibaldino e benefattore anch’egli dell’Ospedale Maggiore; l’altro fratello. Rodolfo, azionista della De Angeli e C.; Enrico, “vero e bravo galantuomo”, consigliere del Comune di Milano, poi deputato e senatore del Regno d’Italia.
Nel 1920 si costituì l´Ente autonomo Teatro alla Scala e il Comune di Milano, iniziando l´eproprio, mise fine alla storia dell’Associazione dei palchettisti privati del Teatro alla Scala.
(Maria Grazia Campisi)
 
Guarda i proprietari del palco dal 1778 al 1920
 

 

    

  
 
 
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